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mercoledì 4 dicembre 2013

Maffei: Scienza significa "domani" e "giovani"

Lamberto Maffei, neuroscienziato di fama internazionale ed attuale presidente dell’Accademia dei Lincei, la gloriosa istituzione fondata a Roma da Federico Cesi nel 1603 e che annovera fra i suoi soci Galileo Galilei, si è trovato ieri in Sicilia per tenere una lectio magistralis in occasione del centenario della sede che ospita la biblioteca Zelantea di Acireale, curata fino al 1866 dall’Accademia degli Zelanti, la più antica istituzione accademica siciliana. La sinergia tra le due storiche Accademie e la mediazione del dott. Saverio Continella, direttore generale del Credito Siciliano, hanno reso possibile l’incontro con Maffei, le cui ricerche negli anni si sono concentrate sullo studio del Sistema Nervoso Centrale attraverso l’utilizzo di tecniche sperimentali come l’elettrofisiologia la psicofisica e la biologia molecolare.

Professor Maffei, lei è un medico: come giudica lo stato di salute della ricerca scientifica oggi in Italia?
«La sua domanda è molto difficile; io ho fatto il ricercatore tutta la vita e mi rendo conto che la ricerca, così come la scienza, è considerata una “cenerentola”, relegata in un angolo polveroso delle stanze di coloro che decidono. Questo credo che sia una vergogna perché scienza significa “domani”, significa “giovani” e probabilmente significa anche avere, in futuro, un PIL maggiore. In particolare i giovani non sono trattati bene, anzi se c’è una classe della nostra società che oggi è particolarmente trascurata io penso che siano proprio i giovani. Non ci sono prospettive e molti dei nostri giovani migliori, li vedo partire per non ritornare. Ma così rischiamo di diventare un Paese senza cultura, senza domani e soprattutto senza quelle energie che certamente non possono provenire dagli anziani. Molti giovani ricercatori che lavorano con me sono ancora a tempo determinato: ma in questo modo con quale concentrazione si potranno dedicare alla ricerca se magari sanno che il prossimo anno non avranno la borsa di studio? Una cosa inimmaginabile! E talvolta quando io mi trovo insieme ai miei studenti mi vergogno perché gente con cui ho lavorato, a cui ho insegnato, che magari è diventata più brava di me, la vedo completamente trascurata. Una vergogna».

Quale contributo può dare un’Accademia, come può essere quella dei Lincei, nel contesto della società attuale?
«Da quando ho assunto la presidenza dell’Accademia ormai quasi cinque anni fa, ho pensato insieme agli altri Soci dell’Accademia di dover fare qualcosa soprattutto per i giovani e che celebrare il passato è certamente doveroso ma occorre anche costruire per le nuove generazioni. Ora, i soci dell’Accademia sono tutti anziani, però sono tutti vecchi professori che sono stati astri nel campo della scienza, della letteratura, delle belle arti, ecc… E dunque abbiamo cominciato ad insegnare agli insegnanti. Sono stati costituiti nove poli che corrispondono ad altrettante città e presto verrà attivato anche qui in Sicilia il polo di Palermo, la cui finalità è quella di sostenere e favorire il miglioramento dei sistemi d’istruzione nel nostro Paese. Ed è una cosa che interessa moltissimo. Il 12 ottobre scorso all’inaugurazione del polo di Bologna sono venuti 730 insegnanti! Alcuni soci dell’Accademia, a titolo gratuito, di concerto con il Ministero dell’Istruzione sono andati ad incontrare soprattutto gli insegnanti delle elementari e delle medie – perché è dai bambini che bisogna cominciare – proponendo loro delle lezioni di matematica, italiano e scienze naturali che hanno lo scopo di offrire un metodo e dei contenuti che gli insegnanti poi offrono ai loro alunni. Devo dire che questa iniziativa, intrapresa con grande sforzo, ha avuto un successo enorme e molte città italiane adesso ci chiedono di aprire un polo lì dove ancora manca».

Lei si è occupato per tutta la vita di neuroscienze e ultimamente la sua ricerca si è focalizzata sulle malattie neurodegenerative. Come coniuga la sua attività di scienziato con quella, per così dire, “istituzionale”?

«Effettivamente un’altra attività che l’Accademia svolge, sempre in sinergia con il Ministero, riguarda l’altro polo “debole”, ma fondamentale della società: gli anziani. Accanto all’educazione l’altro tema di cui la società civile deve occuparsi è appunto quello che riguarda la persona anziana. Su questo tema però ho fatto un po’ più fatica a convincere i Soci a porre in atto idee e soluzioni, però gli anziani nei prossimi dieci anni diventeranno una vera e propria “emergenza” planetaria. Una vita più lunga significa dover fronteggiare un crescente numero di persone affette da demenza senile e si calcola che un malato di Alzheimer costa al sistema sanitario 50mila euro l’anno. Se pensiamo che in Italia vi sono oggi circa un milione di malati ricaviamo una cifra spaventosa ma il nostro governo non ha all’ordine del giorno il problema della demenza senile! E queste persone non possono essere abbandonate a se stesse. Occorrono strutture e personale adeguato, sviluppo della farmacologica e della robotica. Ma è necessario anche, ed è questo il mio campo specifico, intervenire per cercare di prevenire il più possibile l’insorgere di queste malattie. A Pisa c’è un progetto già avviato, e che fortunatamente è stato finanziato, dove le cliniche forniscono il loro contributo gratis. Dall’Alzheimer non si guarisce, ma si può certamente migliorare la qualità della vita delle persone malate e dei loro familiari. Ma occorre che le nostre Istituzioni si facciano carico di questo problema come altri Paesi dell’Unione europea stanno già facendo». 

Pubblicato su La Sicilia giovedì 28 Novembre 2013

giovedì 3 ottobre 2013

Lampedusa

Lampedusa non è più il nome di un’isola, è il nome di un immenso cimitero. “Non sappiamo più dove mettere i morti” dice oggi qualcuno mentre, insieme a tanti altri, mette in fila i sacchi che custodiscono le spoglie mortali di uomini, donne e bambini di cui non sapremo mai il nome. Eritrea? Sì, quasi certamente. Somalia? Forse. Siria? Egitto? Sì, sì. Vengono da ogni luogo in cui c’è guerra, fame, violenze. Il copione è sempre lo stesso: disperazione, sacrificio, speranza e poi… Lampedusa, Catania, Scicli e chissà quanti altri ancora che prima di provare quell’emozione unica di avvistare un lembo di terra, una propaggine di spiaggia, sono stati inghiottiti nel fondo del Mediterraneo. Questa volta erano in 500 stipati all’inverosimile su un peschereccio andato a fuoco per la frenesia di farsi notare, di dire “Eccoci! Siamo qui anche noi, venite a salvarci!”. "Lutto nazionale domani" twitta il Presidente del Consiglio, sì giusto; "faremo sentire la nostra voce all’Europa" twitta il suo vice, benissimo; e poi tragedia, scandalo, cordoglio, turbamento, commozione: il ventaglio lessicale è molto ampio. Vergogna ha detto oggi il Papa; vergogna. Non scandalo, non cordoglio ma vergogna. Perché vergogna? Cosa fa uno che si vergogna? Si nasconde, cerca di non farsi vedere, di non farsi trovare. Perché sa che l’ha fatta grossa, ha combinato un casino. Riecheggia la domanda di Dio nel giardino dell’Eden: “Adamo dove sei?” “Ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto”. L’aveva ricordato il Papa, giusto tre mesi fa, giusto a Lampedusa: «Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere». Oggi allora è il tempo della vergogna, il tempo del nascondimento, del pianto e, ancora una volta, il tempo di domandare perdono. Non c’è spazio oggi per i proclami altisonanti e roboanti.


giovedì 6 giugno 2013

Poggio: "Quei ragazzi considerati spesso vuoto a perdere e l'assenza di adulti"

«Tu sei la cosa più importante dell’universo». La ricetta per sconfiggere lo scoraggiamento e la disillusione che, stando all’ultimo rapporto Ocse, affligge circa l’11% (14% a Catania) dei giovani disoccupati, secondo Cristiana Poggio, vice presidente della Fondazione Piazza dei Mestieri, passa attraverso queste poche, semplici parole. La “Piazza dei Mestieri”, nata a Torino nel 2003 e da qualche anno operante a Catania,  si propone come mission  di favorire la crescita dei giovani in tutte le dimensioni della vita e di avviarli verso il mondo del lavoro recuperando mestieri tradizionali.
Quali sono secondo lei gli elementi di criticità per i quali un giovane trova difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro?
«C’è una mancanza di coesione tra le diverse politiche rivolte ai giovani, manca una politica forte che miri all’accoglienza dei giovani, i giovani si sentono trascurati, quasi un vuoto a perdere, mancano strumenti flessibili, ma soprattutto mancano gli adulti».
Si spieghi meglio.
«Occorrono degli adulti (imprenditori, docenti) che accolgano i giovani e facciano capire loro che sono importanti. La dico in maniera semplice ma il cuore del problema è proprio questo. E’ necessario un sistema di accoglienza del giovane finalizzato all’orientamento, all’individuazione cioè sia delle attitudini peculiari di ognuno sia delle necessità dell’azienda. I percorsi formativi poi devono essere personalizzati e flessibili, perché non tutti i ragazzi imparano nello stesso modo».
Qual è la strategia vincente secondo la sua esperienza?
«Bisogna riconsiderare l’idea che i giovani debbano poter svolgere attività manuali, mentre troppo spesso la scuola, la formazione accademica, vengono considerate le uniche possibilità attraverso cui passa la riuscita professionale. Inoltre  ci sono tanti imprenditori che sarebbero disposti a scommettere sui giovani. Purtroppo però capita spesso che questi imprenditori siano rimasti “scottati” da pregresse esperienze negative e non sono più disposti ad assumere questo rischio».
Lei sostiene che sollecitare la responsabilità dei ragazzi è fondamentale. In che senso?
«I giovani devono essere consapevoli, devono poter giocare la loro responsabilità. Se noi adulti continuiamo a dire ai giovani non c’è speranza cos’altro potrebbero fare? Ai miei ragazzi invece io dico sempre: “Tu sei la cosa più importante del mondo”!»
E funziona?
«Assolutamente sì! Negli anni mi sono accorta che se ad un ragazzo viene affidato un compito, gli si mostra come fare e lo si valorizza il risultato è garantito. Così accade a Torino e così l’ho visto accadere a Catania».


Pubblicato su La Sicilia sabato 1 Giugno 2013

domenica 5 maggio 2013

Di padre in figlio quando l'educazione diventa un'avventura


[foto D. Anastasi]
Quarto di dieci figli, insegnante, padre di famiglia e oggi rettore della scuola paritaria La Traccia di Calcinate in provincia di Bergamo, Franco Nembrini ha fatto del mestiere dell’educatore la sua vocazione e il suo pane quotidiano. Autore di un libro di successo, “Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare” e appassionato studioso di Dante, ha fondato nel 2005 insieme ad alcuni studenti della Cattolica di Milano l’associazione “Centocanti” grazie alla quale la poesia dantesca è stata portata in giro per l’Italia, anticipando addirittura le lecturae Dantis di Roberto Benigni che per questo motivo lo ha voluto con sé qualche anno fa alla prima romana del suo spettacolo “Tuttodante”. Nembrini ha compiuto numerosissimi incontri con studenti, insegnanti, genitori nei quali ha messo sempre a tema la questione che tra tutte gli sta particolarmente a cuore e che oggi appare sempre più come una vera e propria emergenza: quella educativa.

Professor Nembrini, lei ha recentemente affermato che oggi c’è un equivoco quando si parla di educazione. Può spiegarsi meglio?
«Noi pensiamo che il problema siano i ragazzi, i nostri figli, i nostri alunni. In parte questo è vero; conosco bene, insegnando ormai da quasi quarant’anni, il dramma profondo di questa generazione, ma proprio per questo sostengo che il problema siamo noi adulti: la vera emergenza educativa è l’adulto».

In che senso?
«Nel senso che per il fatto che io, tu, noi siamo al mondo, educhiamo ossia trasmettiamo un certo sentimento della vita. I genitori non sono solo quelli che danno la vita biologica - quella possono darla anche i cani o i gatti - ma sono coloro che danno anche un certo sentimento della vita, un certo modo di guardare alla vita, alla sua bellezza, alla sua positività. Ricordo che un po’ di tempo fa mi è capitato di leggere l’articolo di un neuropsichiatra americano il quale sosteneva che già un feto nel grembo materno “sente” se sua madre è contenta di sé, del marito, della sua gravidanza, insomma della vita oppure, viceversa, se è scontenta, infelice o addirittura maledice la sua stessa gravidanza. Questo segnerà immancabilmente il modo con cui il bambino, una volta diventato grande, affronterà tutte le circostanze della vita. Dunque l’adulto è colui che introduce il figlio, o l’alunno, ad un significato positivo e totale della realtà».

C’è stato un momento particolare in cui ha capito cosa significa davvero educare?
«C’è un episodio della mia vita che effettivamente mi è rimasto impresso in modo indelebile nella memoria e posso dire che in quel momento sono nato come educatore: ero intento a correggere i compiti dei miei alunni e ad un certo punto mi accorgo che mio figlio, a quel tempo ancora piccolo, era entrato nella stanza e mi fissava. Non diceva niente ma io, guardandolo negli occhi è come se avessi scorto in lui questa domanda: “Papà, assicurami che vale la pena venire al mondo!” Il “mestiere” dei figli è guardare, guardare in continuazione ed in questo sono bravissimi. Per questo la responsabilità di noi adulti, è partire dal nostro desiderio di realizzazione - ma direi piuttosto dal nostro desiderio di felicità che poi è lo stesso per tutti, adulti e ragazzi - testimoniando la positività e la bellezza della vita, pur dentro le fatiche e le contraddizioni di ogni giorno sfidando la libertà dei ragazzi che, misteriosamente, può anche dire di no».

Eppure oggi sembra di vivere in una società senza padri in cui, come osservava Claudio Risè, “si è smarrita la capacità di vivere le domande elementari dell’esistenza…”
«Diciamo che è stata fatta una guerra sistematica proprio all’idea stessa di paternità iniziando ad indebolire anzitutto l’idea stessa di un Padre Eterno. Quindi la battaglia è stata condotta prima di tutto sul piano religioso, ma ciò ha svelato tutta la debolezza di questa cultura perché alla fine non solo si è fatta fuori l’idea del Padre Eterno, ma anche l’idea di ogni paternità, di ogni autorità è stata sminuita e svillaneggiata. In questo disastro culturale abbiamo davanti una generazione di padri debolissimi che non hanno più il coraggio del loro ruolo e tentano di sostituirlo con quello dell’ “amico” del figlio. Ma i nostri figli non hanno bisogno di avere nei padri degli amici, hanno bisogno di un padre! Lo chiedono a volte disperatamente e la sfida che oggi ci attende è capire nuovamente qual è il ruolo del padre e dunque anche della madre perché è proprio di questo che l’educazione ha più bisogno». 


Pubblicato su La Sicilia sabato 4 Maggio 2013


sabato 4 maggio 2013

In attesa del ritorno di Domenico Quirico...


Prima del 24 agosto 2011, il giorno del suo rapimento in Libia, non sapevo chi fosse Domenico Quirico. Mi trovavo nella sala stampa del Meeting di Rimini, da pochi mesi avevo iniziato a collaborare al quotidiano La Sicilia e per la prima volta partecipavo da giornalista alla grande kermesse romagnola. Eravamo in pochi quel pomeriggio a lavorare in sala stampa, molti erano in giro a seguire gli incontri o ad intervistare le varie personalità che si alternavano tra le sale della Fiera. Io ricordo che stavo scrivendo un pezzo sull’intervista che avevo fatto la mattina a due ragazzi egiziani, Mohamed e Assal, venuti a Rimini a lavorare come volontari dopo aver vissuto l’esperienza del Meeting del Cairo e che erano stati anche testimoni degli eventi di piazza Tahrir che portarono in quello stesso anno al rovesciamento del regime di Mubarak. Seduto al tavolo di fronte al mio si trovava il drappello dei giornalisti di Avvenire e, proprio di fronte a me, era seduto Giovanni Ruggiero, intento a scrivere sul suo pc bianco con il logo del giornale attaccato sul dorso.
A un certo punto, nel silenzio della sala rotto solo dal picchiettio delle dita sulle tastiere, Ruggiero esclama con costernazione portandosi le mani nei capelli: «Oh ragazzi, hanno preso quattro dei nostri in Libia! E’ uscita adesso un’AGI…». Si trattava di Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, Domenico Quirico de La Stampa e di Claudio Monici di Avvenire. Fortunatamente la nostra preoccupazione è durata lo spazio di ventiquattr’ore perché il giorno dopo i quattro inviati sono stati liberati. Anche in quel caso è stato lo stesso Giovanni Ruggiero che, leggendo un’AGI e levando le braccia al cielo, ha dato la notizia dell’avvenuta liberazione a quelli che si trovavano lì in sala stampa. Da quel momento ho iniziato a leggere i reportage di Domenico Quirico, mi affascinava il suo stile grazie al quale riusciva a farti sentire gli stessi odori, gli stessi suoni che lui sentiva, ti faceva provare i sentimenti che lui stesso provava. Tra me e me pensavo: «Ecco uno da cui mi piacerebbe imparare a raccontare i fatti, la realtà…». Il 17 gennaio di quest’anno aveva pubblicato su La Stampa un reportage da Maarat An-Nouman, una cittadina non distante da Homs in Siria: un pezzo magistrale! Quando descrive l’ambiente di una casa da poco abbandonato dai soldati di Assad, ti aspetti quasi che da un momento all’altro questi sbuchino da un anfratto per crivellare  a colpi di kalashnikov lui e i miliziani ribelli che lo accompagnano : odori, suoni, sentimenti, tutto mischiato in una sinestesia che lascia senza fiato chi legge. Non è un incosciente però Domenico Quirico, anche lui ha paura eppure sa che deve essere lì. Il perché lo ha detto lui stesso poco tempo fa in un’intervista ad Alessandra Stoppa sul mensile Tracce. «Il reportage – diceva  – oggi vive una nuova necessità. Bisogna essere all’interno del fatto, rischiando, senza avere un modo per scampare a ciò che accade. Poi, c’è tutto il disperato tentativo della scrittura di restituire in minima parte gli uomini che vedo, di dare a te che non sei lì, almeno per un’infinitesima parte, il senso di esserci, di vedere». Inoltre denunciava la pigrizia dei giornalisti che spesso si accontentano di masticare le agenzie che arrivano al desk senza coinvolgersi, anche affettivamente: «Il problema dei giornali non è il bilancio in rosso, la pubblicità… Ma l’incapacità a raccontare il dolore». Per questo lui va; per condividere, condividere e trasmettere quanto siano a volte terribilmente reali le cose che vediamo. Quirico, come ha ricordato anche Mario Calabresi, è uno dei giornalisti più seri e preparati nell’affrontare situazioni di pericolo ed è per questo motivo che mi auguro con tutto il cuore di poter leggere presto il resoconto del suo viaggio a Homs.  

   

martedì 9 aprile 2013

Studenti e professori uniti dalla passione per i versi


Alda Merini, Davide Rondoni, Clemente Rebora, Angelo Scandurra. Sono i quattro autori scelti come protagonisti di “Poesia InChiostro”, la mini rassegna di incontri sulla lirica contemporanea nata proprio tra i chiostri del Monastero dei Benedettini dall’iniziativa di un gruppo di universitari appartenenti all’associazione studentesca La Traccia, un’iniziativa rivolta non a cultori od “esperti” di poesia, ma a tutti coloro che condividono una passione o semplicemente vorrebbero capirne di più. Alcuni di loro ci hanno raccontato che cosa li ha spinti a realizzare quest’evento:  «Tutto è nato – racconta Pietro – dall’incontro a lezione con alcuni professori; veri maestri appassionati della loro materia al punto tale da suscitare in noi studenti il desiderio di approfondire il rapporto con loro e con le cose che insegnavano, un rapporto dunque che non fosse circoscritto appena alla frequenza del corso o agli esami». «Accostarsi al testo poetico così com’è, senza dover prima leggere pagine di critica o saggi sulla poesia, – ha aggiunto Chiara – è stato il punto di partenza del nostro lavoro: interrogare il testo lasciandoci interrogare da esso». Questo è anche il motivo per cui, di comune accordo con i docenti, i ragazzi hanno scelto proprio questi quattro poeti contemporanei perché «di fatto è più semplice per noi interloquire, entrare in rapporto, con una parola detta oggi piuttosto che secoli fa». La scelta di affrontare testi poetici però potrebbe sembrare ardita, forse perfino temeraria, perché la poesia è di solito il genere meno letto e ritenuto dalla maggior parte degli studenti assai ostico perché il suo linguaggio è meno immediato rispetto ad un testo di prosa. «Il linguaggio poetico è in effetti un po’ più complesso – ammette Caterina – però anche grazie all’aiuto dei professori sono stata aiutata a capire che un testo poetico a volte può leggere meglio, mettendoli a fuoco, aspetti della mia vita, che la vita non basta a se stessa e non si risolve da sola e la poesia in fondo può far emergere un po’ di più qualcosa di noi». A “Poesia Inchiostro” hanno aderito sin da subito anche i professori: «Si sono coinvolti immediatamente e senza riserve – racconta Felice –, desiderosi di condividere insieme a noi studenti la loro passione e aiutandoci inoltre con tutti i mezzi possibili affinché questo ciclo di incontri si potesse realizzare nella forma “dialogante” a cui avevamo pensato noi sin dall’inizio». E fare l’università così diventa davvero un’avventura entusiasmante.

Pubblicato su La Sicilia lunedì 8 Aprile 2013

sabato 6 aprile 2013

In carne e ossa il primo miracolo di don Pino


“In odium fidei”, in odio alla fede. È questa la formula attraverso cui la Chiesa Cattolica descrive coloro i quali hanno versato il proprio sangue a causa della loro appartenenza a Cristo. Ed è a costoro che primariamente spetta la palma del martirio e l’iscrizione nel libro dei beati. Don Pino Puglisi è uno di questi martiri, cioè, letteralmente, un testimone della fede. Per questo motivo sarà beatificato il prossimo 25 maggio a Palermo senza dover attendere l’attestazione del miracolo compiuto post-mortem così come prevedeno i canoni. Eppure un miracolo don Pino lo ha già fatto, e lo ha fatto quando era ancora in vita e operava a Brancaccio, il quartiere nel quale è nato e nel quale purtroppo ha perso la vita ucciso dalla mafia “in odium fidei”. La storia di Giuseppe Carini, potrebbe essere simile a quella, triste, di molte altri ragazzi nati e cresciuto a Brancaccio, il rione palermitano roccaforte del potente boss Michele Greco. Sin da piccolo vive a contatto con una mentalità per la quale essere un uomo temuto e rispettato, un uomo d’onore, è il sogno di ogni bambino. Sebbene la sua fosse una famiglia onesta, alcuni parenti ed amici invece erano legati a doppio filo a cosa nostra e Carini rammenta con terribile lucidità la guerra di mafia che insanguinò Palermo tra gli anni ’80 e ’90, la lotta tra i “viddrani” corleonesi ed i “cittadini” palermitani, la scomparsa di alcuni suoi congiunti vittime della lupara bianca e il suo desiderio crescente di vendicarli diventando a sua volta un uomo d’onore e un assassino. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo. Da poco tempo infatti nella piccola chiesa di S. Gaetano a Brancaccio è arrivato un nuovo parroco, un certo don Giuseppe Puglisi: un incontro che gli cambierà completamente e definitivamente la vita. Roberto Mistretta (“Il miracolo di don Puglisi”, EdizioniAnordest 2013) ha voluto raccontare l’incontro di Carini con il sacerdote palermitano e lo ha fatto proprio attraverso l’io narrante del giovane che descrive il primo incontro con don Pino come non particolarmente suggestivo. Però la sua voce era diversa, «toccava il cuore. Don Pino parlava con semplicità. E lo sguardo, intenso, profondo, trasmetteva grande forza e serenità». È un nuovo inizio per Giuseppe: pian piano abbandona i vecchi “amici” e inizia a collaborare con l’opera di padre Puglisi. Non è facile, i risultati spesso sono scarsi o addirittura inesistenti, e spesso si deve ricominciare da capo. La tentazione di mollare tutto è forte ma era in quei momenti che don Pino diceva, con semplicità: «Non vedere tutto nero. La Provvidenza riuscirà a fare tutto perché è il segno della presenza di Dio». Giuseppe Carini è oggi un testimone di giustizia: ha cambiato nome, lavoro e vive in una località sconosciuta e protetta. Ma è lui il miracolo vivente di don Pino Puglisi perché tutto ciò che ha fatto lo ha potuto fare solo grazie a lui.  


Pubblicato su La Sicilia mercoledì 3 Aprile 2013

mercoledì 3 aprile 2013

La piazza e la rete al Forum Sociale Mondiale di Tunisi. Dalla primavera araba alle lotte globali


Il Forum Sociale Mondiale è l’alter ego no-global e anticapitalista del Forum Economico Mondiale e dal 2001 raccoglie ogni anno migliaia di persone appartenenti al variegato e multiforme universo delle associazioni e dei movimenti “alterglobalisti”, che si incontrano per discutere e condividere strategie da riproporre poi nei rispettivi Paesi di provenienza. L’edizione 2013 è stata particolarmente significativa perché la sede prescelta per ospitare l’evento è stata Tunisi, la capitale del Paese in cui è fiorita la primavera araba. La parola chiave che ha scandito i cinque giorni del Forum è la medesima che circolava di bocca in bocca all’alba della rivoluzione tunisina nel gennaio 2011: dignità. Dal 26 al 30 marzo Tunisi è stata pacificamente invasa da circa 5000 organizzazioni provenienti da 127 paesi per dar vita ad una gigantesca sessione di lavori che ha visto coinvolte decine di migliaia di persone. Non è un caso che come quartier generale della manifestazione sia stato scelto il campus universitario di El Manar, quasi a voler ribadire ancora una volta l’importanza fondamentale della cultura e delle giovani generazioni per il compimento del processo di democratizzazione innescato dalla rivoluzione dei gelsomini il cui cammino è però messo oggi in pericolo dalla deriva islamista a cui il sistema educativo è esposto, come descrive bene anche la vicenda di monsieur Kusdoghli, Rettore dell’università di Manouba, rinviato a giudizio con l’accusa di aver maltrattato alcune ragazze che indossavano il velo integrale. Intervistato durante i giorni del Forum il Rettore ha manifestato preoccupazione per il crescente controllo sull’università da parte di gruppi islamisti che grazie all’appoggio di Ennahda, il partito filo islamico, tentano di imporre il loro sistema di valori su quello educativo. Il Forum è stato tuttavia una grande occasione: entusiasti gli osservatori stranieri che hanno parlato di una sorta di nuova primavera araba: Raffaella Bolini dell’Arci, parla addirittura di miracolo; il quotidiano indipendente algerino El Watan nella sua versione on line ha scritto che la presenza del FSM nel Maghreb è un risultato straordinario per il popolo della primavera araba. Allo stesso modo anche il principale quotidiano tunisino di lingua francese, La Presse, ha interpretato la scelta di Tunisi come una forma di benedizione e omaggio internazionale alla terra culla della rivoluzione democratica nel Nord Africa. Oltre ai temi che hanno riguardato lo sfruttamento delle risorse naturali, e quelli di natura più squisitamente sociale e politica, all’interno del Forum si è svolto anche un interessante evento in cui il legame tra realtà e cyberspazio è stato più che evidente: è il caso de “La piazza globale” o “#globalsquare” per usare il linguaggio di Twitter. L’idea è stata quella di riunire in un’unica zona attivisti e membri di movimenti che nel corso degli anni hanno manifestato nelle piazze di tutto il mondo, allo scopo di verificare la possibilità di un coordinamento tra le varie associazioni insieme ai sindacati ed alle grandi organizzazioni internazionali. Ogni giorno alle 16 si è svolta un’assemblea generale, rigorosamente trasmessa anche in streaming web, preceduta da una serie di incontri e workshop mattutini a cui partecipava un numero più ristretto di persone. Twitter ha svolto un ruolo determinante perché attraverso l’hashtag “globalsquare” ha fatto in modo che i contenuti discussi nelle assemblee di piazza venissero resi pubblici in tempo reale anche a chi non era fisicamente presente, concorrendo ad alimentare il dibattito ed arricchendo di spunti e contenuti le assemblee dei giorni successivi. La copertura mediatica dell’evento inoltre è stata affidata quasi esclusivamente al web 2.0. Oltre a Twitter (con l’hashtag #fsm2013 e #wsf2013) e Facebook, era possibile consultare in rete il blog multilingue “Voci da Tunisi” in cui quotidianamente veniva fornito un resoconto delle tematiche principali affrontate al forum. Alcuni articoli erano stati in realtà ribloggati da altri blog in modo che coloro i quali erano lì per raccontare quello che avveniva davanti ai loro occhi hanno potuto raggiungere un numero più elevato di persone. La piazza e la rete non sono mai state così vicine come in questi giorni di inizio primavera a Tunisi.Certo, la questione è tutt’altro che pacificata sia per l’instabilità politica, sia per una certa instabilità sociale: Zied Dabbar, giornalista tunisino, racconta che sebbene rispetto all’epoca del regime di Ben Ali ci sia meno censura, proprio perché i giornalisti hanno ripreso a fare il loro mestiere, le minacce contro di loro sono aumentate mettendo seriamente a rischio l'incolumità personale. La strada è ancora lunga.


(foto di "Voci da Tunisi")

martedì 2 aprile 2013

Da "Parole e cose" a "il Giovannino"

Quando ho aperto questo blog, ormai quasi tre anni fa, l'ho fatto un po' per gioco, un po' per spirito di emulazione verso altri amici che nel mondo dei "web log" c'erano da parecchio tempo. Nel frattempo avevo scritto due brevi racconti e iniziavo la mia collaborazione con La Sicilia. Volendo far conoscere le cose che scrivevo al maggior numero possibile di persone ed essendomi accorto che la rete è un eccellente veicolo di comunicazione, pur non avendo chiare tutte le implicazioni che questo avrebbe comportato alla fine ho fatto come Giulio Cesare sul Rubicone: l'ho attraversato. Dovendo dare un nome di "battesimo" alla nuova creatura virtuale  ho ripreso il titolo di un libro che non brillava certo per originalità ma che per me era, ed è, molto significativo: "Parole e cose" del prof. Gianni A. Papini che insegna (insegnava?) storia della lingua italiana all'Università Cattolica di Milano. In un passaggio molto bello scriveva che "le parole vivono in relazione a ciò che indicano". Le parole non sono dunque un mero flatus vocis, ma hanno quasi carne e sangue e, come ebbe a dire una volta mons. Luigi Giussani, "le parole sono suoni per coloro che non si impegnano, sono il nome di esperienze per chi le vive". In questi anni ho cercato di raccontare e condividere le esperienze nate dall'incontro con alcune persone e con alcuni libri (un luogo privilegiato di incontro secondo me). Oggi il blog cambia nome e veste grafica: il layout è più semplice ed asciutto, un menù a scomparsa sulla destra mostra le informazioni personali dell'autore del blog, i "follower" e l'archivio. Le foto a corredo del testo sono più grandi e visibili, perché anche un'immagine veicola un messaggio, a volte forse più di tante parole. Il nuovo nome che ho scelto è "il Giovannino" in onore di Giovannino Guareschi, giornalista, scrittore e uomo straordinario e, ovviamente, uno dei miei autori preferiti. Ma il legame tra il vecchio nome del blog e il nuovo c'è anche se a prima vista non si vede: in Guareschi  non c'è una parola che non sia il frutto di un'esperienza. Ad maiora!


sabato 23 marzo 2013

Cristo, mistero del male e poesia

Sette figure a grandezza naturale, sette statue di terracotta; sei di queste disposte attorno all’unica figura posta al centro, distesa. Chi si trovasse a visitare la chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna, non molto lontano da piazza Maggiore, si imbatterebbe in questa scena in cui è rappresentato uno dei capolavori della scultura italiana quattrocentesca, un’opera che ha suscitato addirittura l’ammirazione di poeti come Gabriele d’Annunzio: il “Compianto sul Cristo morto” di Niccolò dell’Arca. Tre statue raffigurano le Marie che quasi si avventano sul corpo esanime di Cristo steso a terra, con i loro volti che sembrano gridare il dolore e lo stupore per la morte di Dio. Al centro, muto e quasi rassegnato, si trova Giovanni e ad un’estremità del semicerchio sta Nicodemo, che pare distogliere lo sguardo da quel corpo morto. Davide Rondoni è poeta e scrittore, ha fondato e dirige il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna ma soprattutto è bolognese, se non di nascita quanto meno d’adozione. Ispirandosi al gruppo statuario di Santa Maria della Vita ha scritto un testo, una sorta di meditazione poetica, creato appositamente per essere letto pubblicamente. Per questo motivo sabato 23 marzo Rondoni sarà a Catania e, nella splendida cornice di S. Francesco all’Immacolata, reciterà i suoi versi.
Com’è nata l’idea di scrivere sul “Compianto”?
«La vista del “Compianto” suscita un contraccolpo ed una commozione intensi in chiunque, fedele o semplice curioso, vi si accosti con il cuore aperto. Il mistero del dolore trova lì, nella tragedia di Cristo morto, il suo apice ed il suo fiore, nonché la sua resurrezione. Proprio da questo sguardo è nato “Compianto, vita”».
Che cos’è che ha inteso comunicare attraverso questi versi?
«Ho scritto questo testo non appena per comunicare qualcosa, altrimenti avrei potuto benissimo fare un articolo, invece ho voluto mettere a fuoco, penetrare con tutto il magone, la violenza e la mancanza di pudore possibili, l’oggetto verso il quale mi sono rivolto. Si scrive per conoscere, e si comunica, anche senza volerlo, questa tensione».
Poesia e scultura: che significa per un poeta accostarsi ad un’altra forma d’arte?
«Significa, come sempre, ascoltare un suggerimento che arriva da altro da sé. Che sia un albero, un volto o un'opera d'arte, non cambia».
In un contesto storico come quello che stiamo vivendo, per tanti versi oscuro e confuso, cosa può dire all’uomo di oggi la Passione di Cristo? E in cosa l’uomo può riporre la propria speranza?
«Come sempre nelle epoche in cui la cultura e il pensiero dominante spacciano l'idea di un uomo astratto, che è “a posto” perché sa assumere il controllo della creazione e di sé, l'ideale finto dell'equilibrio, della onnipotenza economica o politica, ecco che il dolore e il male restano lo scandalo che si tende ad occultare, il mistero che si tende a esorcizzare o ad evitare. Non è un caso che tutti i grandi scrittori della cosiddetta modernità si concentrino sul mistero del male presente, da Leopardi a Baudelaire, da Conrad a Dostoevskij, fino alla O'Connor, Carver, Roth e Ungaretti... Insomma, mettono il viso nello scandalo. Quello che Gesù ha assunto e vinto nell'unico modo in cui persino un Dio può vincerlo. Attraversandolo».


 Pubblicato su La Sicilia giovedì 22 Marzo 2013



giovedì 28 febbraio 2013

La Chiesa "cioiosa" e la tristezza e la commozione del distacco

Il bus a due piani proveniente da Roma arriva a Catania in perfetto orario alle 19:20. Deve ripartire per la capitale tra dieci minuti, il tempo di far salire i passeggeri e caricare i bagagli. Qualcuno è in ritardo, però ha già pagato la sua prenotazione quindi è giusto che li si attenda un po’. L’autista, indispettito per il ritardo che si sta accumulando, richiama i passeggeri ancora in piedi a bordo con un urlaccio e li invita energicamente a prendere posto. Infine, con mezz’ora di ritardo, si parte. Certo, un pullman non è il mezzo più rapido, né tantomeno comodo per fare un viaggio da Catania verso la Città Eterna. Ma il motivo è talmente eccezionale che può giustificare anche una notte passata quasi in bianco e un mal di schiena incipiente: l’ultima udienza generale di Benedetto XVI prima della fine del pontificato, fissata da lui stesso il 28 febbraio. Si tratta dell’ ultima uscita “pubblica” del Papa e già da molti giorni si era stabilito di farla in piazza S. Pietro in previsione di un bagno di folla desiderosa di rendere omaggio ad un grande Papa. Che ci si aspetta davvero tanta gente lo si capisce dal fatto che alle 06.50 del mattino l’autobus preso alla stazione Termini e diretto verso il Vaticano viene bloccato all’altezza di Castel S. Angelo costringendo tutti gli occupanti a scendere ed a proseguire a piedi lungo via della Conciliazione trasformata per l’occasione in una gimkana di transenne e nastri. L’accesso alla piazza è lento perché le misure di sicurezza sono state rafforzate. Molti hanno in mano un cartoncino rosso, il pass, ma intorno si vedono anche sguardi preoccupati e interrogativi: sono quelli di coloro che non ce l’hanno e che temono di stare facendo inutilmente una fila kilometrica. In realtà l’accesso alla piazza, almeno da un certo punto in poi, oggi è libero e dunque, dopo essere stati controllati, si entra. Non sono nemmeno le 07.30, mancano ancora tre ore all’arrivo del Papa, eppure già mezza piazza e il sagrato rigurgitano di persone festanti e in attesa. Qualcuno si domanda chi sarà il prossimo Papa, un gruppetto di indiani insieme ad alcuni sudafricani intonano canti per Benedetto XVI scanditi dal suono delle vuvuzelas. Tantissime le bandiere che sventolano nel cielo, oggi di un azzurro intenso: ci sono i bavaresi, accorsi in migliaia a salutare il “loro” Papa, ma spiccano pure la bandiera libanese, quella giordana e, soprattutto, quella siriana. Innumerevoli gli striscioni dove le parole che ricorrono più spesso sono “grazie” e “ti vogliamo bene”. C’è chi invoca come successore di  Benedetto XVI lo stesso Benedetto XVI, chi addirittura, forzando i canoni, lo vorrebbe “santo… prima”. È un legame familiare, affettuoso quello che lega gli oltre centocinquantamila della piazza a Benedetto XVI. C’è la tristezza e la commozione del distacco, qualcuno mentre il Papa parla tira su col naso ripetutamente e si passa un fazzoletto sugli occhi umidi, ma c’è anche la coscienza  di appartenere ad un corpo vivo che è la Chiesa nella “cioiosa” certezza che il Signore è sempre con noi.


Pubblicato su La Sicilia giovedì 28 Febbraio 2013

giovedì 21 febbraio 2013

"L'infanzia di Gesù" tra teologia e storia

Scriveva Ludwig Wittgenstein che il cristianesimo è la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo. Difficile dunque non fare i conti con la figura di Cristo: l’ultimo libro del Papa ha contribuito di certo ad alimentare il dibattito, scuotere le coscienze, tendere gli animi verso l’evento che ha introdotto la più sconvolgente novità nel mondo: Dio fatto carne. Recentemente, presso il dipartimento di Scienze Umanistiche, a cura dell’associazione “Centro Culturale di Catania” si è svolto l’incontro di presentazione del testo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI “L’infanzia di Gesù”, che ha visto protagonisti Antonio Di Grado, docente di Letteratura italiana presso l’Ateneo catanese, e Salvatore Scribano, cappellano del Policlinico Universitario. Di Grado, “letterato onnivoro e cristiano dilemmatico”, ha posto subito l’accento sulla compresenza dell’intento divulgativo e del rigore storico-filologico all’interno dell’opera ratzingeriana, in cui la semplicità di un linguaggio accessibile a tutti fa tutt’uno con la competenza del teologo e questa compenetrazione viene messa a servizio di idee forti e dimostrabili. Una di queste è certamente quella della continuità fra tradizione ebraica e tradizione cristiana: nella persona di Cristo si avverano le antiche promesse al popolo d’Israele e gli evangelisti Matteo, ma soprattutto Luca, attraverso la descrizione degli eventi della nascita di Gesù vogliono mettere in luce proprio questo legame. Ma c’è di più: in quel punto lontanissimo della periferia dell’impero romano la misericordia di Dio ha incrociato la storia dell’uomo, non solo quella del popolo d’Israele. Nei racconti dell’infanzia, ha sottolineato Scribano, la fonte non può essere stata il Gesù storico perché evidentemente egli non ha mai parlato della sua fanciullezza. Questi racconti provengono dall’ambiente familiare vicino a Gesù e il Papa nel suo lavoro ha portato avanti una precomprensione, come del resto fa ogni storico serio, prendendo sul serio queste narrazioni. Nei Vangeli bisogna sottolineare però che l’interesse storico per i fatti descritti va di pari passo con quella che potremmo chiamare la “traslucenza” della grande Presenza: il protagonista di quei racconti, Gesù, è il luogo fisico, carnale, di questa “traslucenza” di Dio, che affiora e si fa conoscere.


Pubblicato su La Sicilia giovedì 14 Febbraio 2013

giovedì 31 gennaio 2013

L'apostasia dei moderni sconfitta da un fatto

È divenuto un “dogma” della modernità l’adagio che la fede, specialmente quella cristiana, e la ragione sono assolutamente inconciliabili. Si sostiene infatti che la fede è frutto di un atteggiamento emotivo e sentimentale, quasi una sorta di “rifugio interiore”, verso la realtà quotidiana che a volte è incomprensibilmente drammatica e sfugge alle maglie fitte di una ragione che vuole aggiogare ogni aspetto della vita alla sua misura. Ma anche per molti cristiani Gesù è divenuto semplicemente un grande uomo del passato: il dramma del cristianesimo oggi, sosteneva il filosofo francese Emmanuel Mounier, non deriva dalla minaccia di una nuova eresia, ma da una sorta di tiepidezza, «una specie di silenziosa apostasia provocata dall'indifferenza che lo circonda e dalla sua propria distrazione». L’avvenimento di Cristo ridotto a dottrina e morale, a pie regole per un quieto vivere, è un rischio a cui anche la Chiesa ed i cristiani sono esposti e il risultato è quello di una fede monotona e insipida che nulla ha a che vedere con la quotidianità della vita. Eppure le domande se la fede abbia un qualche legame con la realtà concreta, se Gesù non sia appena un illustre personaggio del passato, un rivoluzionario che predicava la pace e la tolleranza fatto fuori dai potenti di turno, ma Dio stesso fattosi uomo, morto e risorto, sono domande che in un senso o nell'altro esigono una risposta e non possono essere semplicisticamente liquidate come “irrilevanti”: bisogna prendere una posizione di fronte a Cristo, osservava Kierkegaard. L’Anno della fede indetto dal Papa nell'ottobre scorso è stato l’occasione per la realizzazione di una mostra itinerante dal titolo “Videro e credettero. La bellezza e la gioia dell’essere cristiani”. Un rapporto del Censis di qualche tempo fa rilevava come la nostra società fosse pericolosamente segnata da un senso di vuoto, un vuoto acuito dalla apparente soddisfazione di ogni desiderio. Eppure è un’esperienza piuttosto comune quella di avvertire un’ inquietudine rispetto ad ogni cosa, “un’ansia arcana” che ci fa sospirar le stelle, la chiamava Pirandello. È accaduto però nella storia un fatto che porta con sé una pretesa assolutamente unica e originale: un uomo si è detto Dio. Gesù di Nazareth, un uomo che si poteva incontrare, con cui si poteva chiacchierare, mangiare e bere, ha preteso di identificare se stesso con il Mistero che fa tutte le cose, ha preteso di essere la risposta ad ogni inquietudine e desiderio dell’uomo. Occorre certamente una mossa della libertà umana: un sì che però non è frutto di una elucubrazione, ma dell’esperienza di un incontro che investe la quotidianità della vita per cui la fede non è più un fenomeno emozionale ma un fenomeno di ragione: per credere occorre solo avere occhi buoni per guardare.


Pubblicato su La Sicilia mercoledì 30 Gennaio 2013