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mercoledì 8 ottobre 2014

"Piazza dei Mestieri" per mettere a frutto il talento dei giovani

[foto archivio piazza dei mestieri]
Una giornata alla “Piazza dei Mestieri” di Torino con Salvo, Giovanni, Ivan, Danilo, Ilenia, Noemi, Lucia, Alfina, Samuel, Martina, Siria e Francesco, giovanissimi catanesi che, come molti loro coetanei, iniziano ad affacciarsi alla vita adulta portando dentro di sé un grande desiderio di realizzazione. Non frequentano una scuola, pur essendo molti ancora in obbligo scolastico, perché i percorsi formativi “tradizionali” non coincidono con le loro naturali inclinazioni oppure perché un fallimento scolastico ha ingenerato un rifiuto verso qualsiasi tipo di scuola. A guardarli bene però questi ragazzi non sembrano affatto depressi o rassegnati anzi mostrano quasi una baldanza ingenua quando ti raccontano quello che desiderano fare “da grandi”. E la strada che percorreranno da grandi in un certo senso è un sentiero già tracciato perché ciascuno di loro si sta preparando chi a diventare termoidraulico, chi chef, chi acconciatore, chi estetista, chi barman. La formazione professionale rimane dunque l'unica valida alternativa ai percorsi scolastici tradizionali capace di arginare il fenomeno drammatico della dispersione scolastica che spesso, come un effetto domino, genera esiti nefasti primariamente nei giovani e poi nella società civile. La Fondazione Piazza dei Mestieri è nata dieci anni fa a Torino proprio per rispondere a questa sfida che è in primo luogo educativa. Racconta Dario Odifreddi, Presidente della Fondazione, che uno dei motivi per i quali è nata la “Piazza” è stato proprio quello di accorgersi con dolore che «tanti giovani si perdevano per strada senza poter mettere a frutto i loro talenti. Abbiamo pensato così di costruire un luogo capace di accoglierli e di accompagnarli nel loro percorso educativo e nel loro inserimento nel mondo del lavoro». Un modello di inclusione sociale rivolto ai minori questo della “Piazza”, che attraverso il sistema duale scuola-lavoro, ha introdotto nel mondo delle professioni migliaia di ragazzi. Un modello che si è rivelato “esportabile” tanto è vero che da qualche anno, in partnership con “Archè”, Ente di Formazione accreditato presso la regione siciliana, la “Piazza” è sbarcata a Catania. E proprio in occasione della settimana di festeggiamenti per il decennale i dodici giovani catanesi, in rappresentanza di tutti i loro compagni dei vari corsi, si sono ritrovati a Torino nella sede storica della “Piazza dei Mestieri”. Ed è proprio in quel luogo che li abbiamo incontrati, nella piazza della “Piazza”, la grande corte interna nella quale ogni giorno sciamano centinaia di ragazzi che si avviano verso le proprie aule o verso i laboratori dove imparano il mestiere con il quale si guadagneranno da vivere. Chiediamo loro che cosa li ha colpiti maggiormente della “Piazza” di Torino e la risposta quasi unanime è che «qui è più grande e ci sono molte più cose». Ma subito uno dei ragazzi ci tiene a precisare che «anche se a Catania la “Piazza” è più piccola impariamo tanto e siamo ogni giorno aiutati a capire cos'è il lavoro, come dobbiamo comportarci nel luogo di lavoro e come rapportarci con le altre persone». È l'impronta di un modello vincente che si è fatto strada in questi anni e che prima ancora di insegnare una tecnica punta tutto sull'umanità di ogni ragazzo sfidandola e cercando di far emergere il meglio di ciascuno. Questa dinamica diciamo così “affettiva” si riverbera poi nel modo di cucinare un piatto, di fare un caffè, di aggiustare un motore o di fare un'acconciatura; perfino pulire dopo aver utilizzato la propria postazione di lavoro diventa un'occasione di crescita personale. C'è però un altro aspetto che colpisce i giovani catanesi, un aspetto che, dicono, vorrebbero vedere presto realizzato anche a Catania. La “Piazza dei Mestieri” a Torino non è solo un luogo in cui si impara un mestiere, ma è anche allo stesso tempo il luogo in cui questo mestiere può essere messo subito a frutto. E così i ragazzi del corso per chef ad esempio cucinano per i loro compagni che all'ora di pranzo vanno a mangiare in mensa; oppure i ragazzi del servizio bar lavorano al birrificio o al ristorante “La Piazza”, aperto al pubblico sette giorni su sette. Per non parlare poi del laboratorio nel quale i ragazzi lavorano la cioccolata che viene venduta lì direttamente. È l'idea dei prodotti a “chilometro zero” oggi così tanto in voga e che ha reso negli anni la Piazza dei Mestieri un vero e proprio punto di riferimento per tutta la città di Torino e i suoi abitanti. Ecco spiegato quell'85% di giovani che, dopo aver ottenuto la qualifica professionale al termine del ciclo di studi alla “Piazza dei Mestieri” si inseriscono immediatamente nel mondo del lavoro. Ma a Catania, dove il numero delle imprese legate al territorio è minore rispetto a Torino, dove le politiche regionali relative alla formazione professionale sono un disastro  tutto questo sarà possibile? «Le possibilità che questo accada anche a Catania ci sono – dice ancora il Presidente Odifreddi – perché anche lì ci sono una serie di rapporti che in questi anni sono nati, che si sono sviluppati con le imprese e anche con agenzie territoriali legate al mondo del turismo. Quello di cui ci sarebbe veramente bisogno prima di ogni altra cosa però è la stabilizzazione del quadro, cioè avere la certezza che in un periodo ragionevole ci sia la possibilità che il percorso formativo abbia una sua continuità. Se un padre e una madre hanno un figlio adolescente che vuol intraprendere la formazione professionale faranno molta fatica a sostenere un percorso che non si sa se avrà un termine: sarebbe come iscrivere un figlio a scuola con l'incognita però che l'anno prossimo potrebbe non attivarsi la classe successiva. Questa è la cosa più urgente da fare; dopo ci sono le procedure, gli aspetti burocratici, i pagamenti, ma la cosa più importante in questo momento è consolidare il quadro». Una speranza che anima anche i dodici giovani catanesi che prima di salutarci ci dicono: «Speriamo che la “Piazza” di Catania diventi come quella di Torino».

Pubblicato su La Sicilia lunedì 6 Ottobre 2014

martedì 30 settembre 2014

Piazza dei Mestieri, in 10 anni 3mila studenti: l'85% lavora

[foto: ilsussidiario.net]
La formazione professionale è spesso un Leviatano che fagocita risorse economiche, tempo ed energie. Perduti tra progetti da stilare, ritardi nei pagamenti, discussioni infinite della politica locale sui modelli da adottare, molti enti di formazione finiscono per essere inesorabilmente stritolati dagli ingranaggi della burocrazia. Per non parlare poi di quegli enti il cui unico scopo è quello di arraffare i finanziamenti riducendo la “formazione professionale” a mero slogan. A farne le spese in prima persona, evidentemente, sono quei giovani che vorrebbero imparare un mestiere per potersi affacciare al mondo del lavoro e alla vita adulta e che invece sono costretti ad attendere, sfaccendati. Per fortuna la musica non è sempre così. Esistono degli enti di formazione professionale che, pur tra enormi difficoltà, lavorano in maniera impeccabile e soprattutto garantiscono ai ragazzi che vi si iscrivono un'ottima formazione e una reale possibilità di imparare. È il caso ad esempio della “Piazza dei Mestieri” nata a Torino ma attiva già da qualche anno anche a Catania, un'impresa sociale educativa la cui mission è proprio quella di aiutare ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni (molti dunque ancora in obbligo scolastico) ad imparare un mestiere e ad inserirsi così nel mondo del lavoro. I numeri parlano chiaro: in dieci anni di attività della Fondazione “Piazza dei Mestieri” 3000 ragazzi hanno frequentato i corsi professionali e circa l'85% di essi hanno trovato lavoro al termine del percorso formativo. A Catania, dove la “Piazza” è presente dal 2011, gli iscritti ai corsi sono stati circa 400. Non è un caso dunque che la Fondazione “Piazza dei Mestieri” sia stata annoverata nell'Olimpo degli istituti d'eccellenza assieme ad altre realtà che hanno fatto diventare rivoluzionaria un'idea vecchia e quasi scontata: imparare un mestiere stando in classe, alternando alle ore di lezione teorica un congruo numero di ore da trascorre in laboratorio mettendo le mani in pasta, in alcuni casi letteralmente, nel proprio lavoro. La Fondazione “Piazza dei Mestieri” quest'anno spegne dieci candeline e nella sede storica di Torino si prepara una settimana di festeggiamenti ricca di incontri, dibattiti e momenti conviviali ai quali parteciperà anche un drappello di studenti catanesi. Ma dove sta il segreto del successo di un'opera del genere? Forse sta nel modo di guardare ogni singolo ragazzo e considerarlo – come ebbe a dire una volta Cristiana Poggio, vice presidente della Fondazione – «la cosa più importante dell'universo».

Pubblicato su La Sicilia lunedì 29 Settembre 2014

mercoledì 17 settembre 2014

Se il campo sportivo del carcere si trasforma in teatro all'aperto

(foto Davide Anastasi)
Chissà come avrebbe reagito Luigi Pirandello se gli avessero detto che un giorno una delle sue novelle sarebbe stata messa in scena in un carcere e che gli attori sarebbero stati proprio gli stessi detenuti? Eppure della compagnia teatrale, assolutamente sui generis, che lungo il corso degli anni si è venuta formando nella casa circondariale di piazza Lanza non ci si dovrebbe ormai sorprendere più di tanto. Dopo il “Barabba” del premio nobel svedese Lagerkvist questa volta è stato il turno de “La giara”, una commedia famosissima del premio nobel agrigentino. La tematica apparentemente più “leggera” rispetto alle precedenti rappresentazioni non deve trarre in inganno perché nella commedia infatti emergono chiaramente alcuni temi fondamentali della poetica pirandelliana. Eppure nel cortile del carcere, adibito di solito a campetto sportivo ma trasformato per l'occasione in un teatro all'aperto, si ride delle disavventure del povero don Lolò Zirafa alle prese con Zi' Dima Licasi e attorniato dagli altri personaggi della commedia: l'avvocato Scimè, 'Mpari Pè, Tararà, Fillicò, 'gnà Tana e il mulattiere. Dialoghi tutti rigorosamente in dialetto siciliano nei quali si colgono le varie sfumature, dagli accenti però inconfondibili, del catanese, del paternese o dell'adranita. Ciliegina sulla torta: il detenuto straniero che per l'occasione ha imparato a recitare in dialetto! Il merito va sicuramente agli attori-detenuti che, in un lasso di tempo brevissimo, hanno imparato il copione e si sono calati perfettamente nelle parti loro assegnate cimentandosi con un testo di non semplice resa scenica grazie anche alla sapiente regia del professore Alfio Pennisi, preside del Liceo Spedalieri con la collaborazione del dott. Giuseppe Avelli, responsabile dell'area educativa del carcere e grazie anche all'aiuto fattivo di tanti volontari che hanno contribuito alla realizzazione della scenografia e dei costumi. «Il laboratorio teatrale, giunto ormai al terzo anno, è – come sottolineato dal comandante Salvatore Tramontana – una delle attività che coinvolge maggiormente i carcerati». Emblematica proprio la rappresentazione della commedia pirandelliana alla quale hanno assistito contemporaneamente tutti i detenuti del carcere, oltre trecento persone, e che ha costituito una novità assoluta per piazza Lanza. «Il segno di un rapporto di fiducia – ha sottolineato la dott.ssa Elisabetta Zito, direttore della struttura – che negli anni è andato via via rinforzandosi tra volontari, personale carcerario e detenuti». La messa in scena de “La giara” è coincisa anche con un avvenimento particolare: il cappellano del carcere, mons. Francesco Ventorino, ha da poco compiuto sessant'anni di sacerdozio ed è a lui che i detenuti hanno voluto dedicare la piéce teatrale. Fino a qualche anno fa – ha detto mons. Ventorino ai detenuti – mai avrei immaginato di festeggiare i miei 60 anni di sacerdozio in questo luogo così bello. Ed è bello perché qui l'inevitabile pena della detenzione, che vi priva della libertà, si accompagna ad una attenzione a non rendere ancora più gravosa questa pena a cui siete sottoposti. Questo è un luogo umanissimo dove la vostra umanità dolorante si incontra con l'umanità cristiana di chi vi sorveglia perché nel cristianesimo l'uomo non perde mai la sua dignità qualunque delitto commetta».

Pubblicato su La Sicilia mercoledì 17 settembre 2014

domenica 31 agosto 2014

"Periferie di vita sono le persone ai margini"



“Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo” è il titolo dell’edizione 2014 del Meeting di Rimini, la grande kermesse politico-culturale che ad agosto si svolge nella città adriatica e che quest’anno ha tagliato il traguardo delle trentacinque edizioni. Un tema, quello delle periferie, assai caro a papa Francesco ed al quale egli si è richiamato fin dall’inizio del suo pontificato un anno e mezzo fa ma anche un tema che spesso è stato interpretato in modo non del tutto corretto se non addirittura sbagliato rispetto alle intenzioni originarie del papa. Ospite del Meeting è stato padre Antonio Spadaro, sacerdote gesuita e direttore de La Civiltà Cattolica, il quale conosce bene il suo “confratello” Bergoglio e che abbiamo incontrato lungo i padiglioni della fiera che ospita la manifestazione riminese.

Padre Spadaro il titolo di questa edizione del Meeting come risponde, secondo lei, alle preoccupazioni che stanno più a cuore al Papa?
«Il titolo del Meeting si sofferma sulle periferie e questo è un tema centrale nel pensiero di papa Francesco il quale ama vedere la realtà in maniera poliedrica. Egli ha detto più volte infatti di non amare, geometricamente, parlare di sfera perché nella sfera tutti i punti sono equidistanti dal centro: si tratta alla fine – sostiene il papa – di una omologazione. Il poliedro invece è sfaccettato ed ogni faccia è originale ed ha una sua disposizione differente rispetto al centro. Il concetto di periferia è in realtà un concetto complesso perché il Papa con “periferia” vuole intendere la realtà, quella realtà che è appunto sfaccettata, ricca, complessa; l’abbiamo visto proprio in questi giorni con il recente viaggio in Corea… Francesco ha avuto l’intuizione spirituale di accettare immediatamente l’invito ad andare lì perché in fondo la penisola coreana è un fascio di frontiere nel quale confluiscono tutte le tensioni del Novecento. Vivere la periferia secondo il Papa significa vivere la realtà con una prospettiva differente carica di attenzione e di cura per tutto ciò che di solito non cade sotto gli occhi distratti dei più. La periferia allora è la vita stessa e le periferie sono le persone poste ai margini. Secondo Bergoglio quindi guardare la realtà secondo questa prospettiva non è un punto di vista ma un punto di vita. Il Meeting centrandosi sulle periferie intende avere questo sguardo originale sulla realtà».

Il titolo del suo intervento qui a Rimini è “La verità è un incontro”. Oggi però sembra che la questione della verità sia diventata un terreno di scontro in cui entrano in conflitto due modi o meglio, due mondi contrapposti di concepire la realtà, la vita, la spiritualità. Cosa vuol dire allora che la verità è un incontro?
«L’approccio di Francesco è un approccio radicalmente  pastorale. Questo significa che per lui la verità non è da considerare come un’enciclopedia di contenuti o di valori e nemmeno un’enciclopedia di valori e di battaglie da compiere in nome di questi principi. Per il papa la verità è l’incontro personale con il Signore, la percezione dell’attrattiva Gesù come la definiva don Giussani in un suo libro. La verità del Signore si dà esattamente in quest’incontro e non in un’elencazione astratta di idee e principi. Comunicare il Vangelo alle persone significa aiutarle ad incontrare questa sorpresa. L’incontro con Cristo genera poi una capacità di incontrare l’altro che è veramente di grande apertura. Il papa, soprattutto durante il viaggio in Corea nel discorso ai vescovi dell’Asia, ha fatto un passo avanti nel concetto di dialogo, superandolo addirittura, e parlando di empatia. Ha detto con grande chiarezza che l’obiettivo non è solo ascoltare l’altro ma accoglierlo nella propria casa cogliendo quello che il suo cuore dice al di là delle parole che esprime. Si capisce allora che il papa arriva ad un livello molto profondo di incontro dove ci si trova davanti ad una apertura assolutamente radicale nei confronti dell’altro. La certezza interiore che la verità è un incontro diventa inoltre qualcosa che assume anche una valenza politica».
  
In che senso politica? 
 «Quando il papa ha visitato la Terra Santa, ad esempio, ha evitato completamente di porsi nella simmetria geometrica dello schema vittima-carnefice ed ha imposto invece un altro schema che è quello dell’amicizia. L’incontro simbolicamente culminante di quel viaggio è stato l’abbraccio davanti al Muro del pianto tra Francesco, il rabbino Skorka e l’islamico Omar Abboud. Ma non è stato appena l’incontro tra un cristiano, un ebreo ed un musulmano ma è stato l’incontro fra tre amici! Il papa ha quindi imposto il livello dell’amicizia in luogo in cui di per sé avrebbe dovuto prevalere l’incontro di tipo istituzionale-diplomatico. La diplomazia, che pure è necessaria, ha un elemento di ipocrisia, l’amicizia invece ne è completamente priva. Impostando le relazioni sulla base dell’incontro di amicizia, saltando tutte le mediazioni, il papa ha dato una forma al modo di affrontare il conflitto, una forma che è originale e profetica, basata su realtà umane comprensibilissime da tutti».


Pubblicato su La Sicilia sabato 30 Agosto 2014

giovedì 26 giugno 2014

"Con Dio sperimento il per sempre che riempie la mia vita di sacerdote"

Prima ancora di voltare lì dove la strada si allarga in una piazza alberata si sente un suono confuso di voci che si incalzano sovrapponendosi le une alle altre in un chiasso quasi assordante. Girato l’angolo si comprende finalmente il motivo di tutto quel vociare: ci si trova davanti al grande oratorio attiguo alla chiesa di S. Ignazio di Loyola vicino via Feltre a Milano. Entrati negli uffici della parrocchia ci viene incontro don Pierluigi Banna, ma tutti qui lo chiamano don Pigi, in t-shirt rossa e bermuda: si sa, la scuola è finita, l’oratorio estivo è iniziato e quindi c’è moltissimo da fare... Don Pierluigi, anzi don Pigi, trent’anni, è coadiutore del parroco di S. Ignazio nelle attività che riguardano soprattutto i giovani dalle elementari fino all’università ed è stato ordinato sacerdote il sette giugno scorso nel Duomo di Milano. Fino agli esami di maturità ha vissuto nella sua città natale, Catania, poi il trasferimento nel capoluogo lombardo dove ha compiuto gli studi universitari e dove è nata anche la sua vocazione al sacerdozio.
Don Pigi che cosa l’ha condotta proprio qui a Milano?
«Quando ho detto ai miei genitori che volevo studiare lettere classiche hanno provato, almeno inizialmente, a farmi cambiare idea. Però vedendo la mia passione, la mia tenacia nel voler assecondare questa inclinazione verso la letteratura, alla fine hanno ceduto suggerendomi però di andare a Milano in modo da potermi garantire almeno qualche possibilità lavorativa in più. E così sono andato a studiare in “Statale”. Durante i primi anni di università avevo anche una fidanzata che viveva a Catania, ci volevamo bene, era un bel rapporto...»
E poi cos’è successo?
«Una volta, durante una telefonata, le ho detto che il nostro rapporto era così bello che nessuno poteva permettersi di impedirlo a meno che non fosse stato per qualcosa di più grande. Nel tempo però avvertivo qualcosa che nel rapporto con lei non funzionava  - ma andava tutto bene eh!  - però  c’era qualcosa che non andava ma non riuscivo a capire cosa fosse. Un giorno, era il 23 dicembre del 2002, facendo le valigie per tornare a Catania per le vacanze di Natale mi ha attraversato questo pensiero: “E se fossi chiamato ad amarla in modo diverso?”. Immediatamente ho sentito una grande pace, come se tutto avesse trovato la sua giusta collocazione ma subito dopo ho pensato che non poteva essere così, non poteva accadere così quella che viene definita la “vocazione”. Mi sarei aspettato qualcosa di più eclatante, di più “visibile” e ricordo di averne parlato con don Giorgio, un prete di Milano, pensando che lui mi avrebbe consigliato di tornare dalla mia ragazza. Invece mi ha detto che la vocazione poteva nascere anche in quel modo lì e allo stesso tempo mi ha dato un criterio per verificare se questa ipotesi fosse frutto di una mia idea o venisse da Dio: se vivendo la vita quotidiana, lo studio, i rapporti con gli amici mi fossi accorto di vivere tutto con più gusto, in modo più aperto, allora la mia intuizione era buona e dovevo percorrerla . Devo dire che con questa ipotesi di lavoro ho visto fiorire tutta la mia vita. Ero contento. Contento di affrontare gli esami, contento di stare con gli amici; vedevo crescere in me una maggiore attenzione ai bisogni dell’altro ed anche una intelligenza più profonda nel giudicare tutto ciò che accadeva . Nella verifica di questa intuizione, insomma, mi accorgevo che la mia vita diventava più piena e matura».
La sua decisione di divenire sacerdote stride molto con il sentire comune il quale considera folle la possibilità che una persona possa fare scelte radicali e definitive. La dimensione del “per sempre”, che vale sia per il prete sia per le coppie sposate, oggi viene messa in ridicolo e giudicata impossibile da realizzare. Lei cosa ne pensa?
«Se si considera il “per sempre”  come frutto di una decisione personale, qualcosa che dipende ultimamente da sé, alla fine è davvero irrealizzabile. Saresti scambiato per un presuntuoso. Secondo me oggi uno può dire “per sempre” solo se prima qualcun altro ha detto a lui “per sempre”. Mi spiego: uno può dire “io ti amo per sempre” ad una donna se ha fatto lui per primo l’esperienza di essere amato di un amore eterno. In ogni scelta vocazionale si può dire questo per sempre e si capisce che Chi è per sempre, cioè Dio, ha posto per primo gli occhi su di te e ti ha fatto sperimentare questo per sempre. Io, ad esempio, sperimento il per sempre attraverso il perdono. Io posso fare la cosa più grossa di questo mondo ma Lui ricostruisce, non facendo finta che il mio errore non ci sia, ma ricostruendo  con le macerie del mio errore. Ognuno di noi è oggetto di un amore che è per sempre e un amore che è per sempre ha come sorgente ultima Dio perché chi può dire “io ti amo per sempre”? Io posso dire per sempre ma come risposta all’iniziativa di Uno che è eterno e che si è interessato a me».
È difficile far accettare le cose che lei ha appena detto anche a chi non ha la fede...

«Secondo me anche chi non ha la fede desidera il per sempre. Tutti noi, nel momento in cui ci imbattiamo in qualcosa di bello, corrispondente per la vita, vorremmo che non finisca mai. È una cosa che si desidera,  non è una cosa che si comprende in modo intellettualistico. O sperimenti infatti, come dicevo prima, qualcuno che si interessa a te per primo o altrimenti pensi che sia tutto un’utopia, un sogno, qualcosa che forse va bene per gli adolescenti ma che poi alla lunga diventa impossibile da perseguire».


Pubblicato su La Sicilia lunedì 23 Giugno 2014

lunedì 26 maggio 2014

Dante si lasciava "sconvolgere", l'opposto della nostra apatia

Cécile Le Lay è una giovane docente di lingua, letteratura e cultura italiana all’Università di Lione appassionatissima in particolare del nostro Dante Alighieri. La scelta fatta alle scuole medie di studiare l’italiano e l’incontro, molti anni dopo qui in Italia, con alcune grandi personalità che le hanno fatto intravedere come la letteratura potesse coinvolgere tutta la vita, ne hanno segnato in modo indelebile la vocazione umana e professionale. Il suo lavoro oggi è tentare di trasmettere a generazioni di giovani studenti in Francia la stessa passione che ha coinvolto lei per prima tanti anni fa. L’abbiamo incontrata a Catania dove è venuta per partecipare ad un seminario svoltosi presso il nostro Ateneo e per incontrare alcuni studenti del Liceo Spedalieri.

Professoressa, un uomo, un poeta italiano vissuto oltre settecento anni fa ha ancora qualcosa da dire a noi moderni?
«Io credo proprio di sì. Dante è uno che si lascia “sconvolgere”, non rimane indifferente alla realtà che lo circonda. Noi invece siamo diventati apatici, un po’ cinici, spesso in balia di qualcosa che non sappiamo nemmeno definire. Lui invece porta con sé e riesce a comunicare una ricchezza di esperienza che nessuno dei suoi contemporanei possiede, senza censurare nulla, senza dimenticare le oscurità, senza mettere da parte nemmeno un aspetto del reale. Nella Divina Commedia tante domande, tante difficoltà, tanti drammi sono messi davanti agli occhi del lettore e affrontati dal protagonista con la certezza che è possibile percorrere una strada e che questa strada porta verso una meta sicura. Direi che in questo senso Dante è più moderno di noi moderni».

C’è un aspetto, secondo lei, che colpisce maggiormente i giovani nel leggere Dante?
«La tematica dell’amore in Dante è talmente appassionante che non può, credo, non coinvolgere anche i giovani di oggi sia all’università sia, come ho avuto modo di sperimentare, al liceo. Quello che mi preme sottolineare però è che l’amore in Dante non si riduce ad una passione irrazionale, quella passione che, a giudizio di tanta critica, ha condannato all’Inferno Paolo e Francesca. A mio avviso invece la condanna dei due amanti è avvenuta in forza di un libero assenso della loro volontà e non appena a causa di una passione tumultuosa e inarrestabile. Dante cerca di farci fare un percorso di comprensione attraverso la nostra ragione, non cerca banalmente di sedurci attraverso una immedesimazione sentimentale».

Dante è il poeta cristiano per eccellenza e lei lo insegna nella “laicissima” Francia. Questo non le ha creato qualche problema?

«In Francia scontiamo una pesante eredità anticristiana e parlare di certi temi a volte non è facile. Secondo altri aspetti però questa difficoltà è positiva perché obbliga ad essere più veri, a non dare nulla per scontato e ad andare verso l’essenziale: ai ragazzi non puoi fare un discorso sulla religione, lo rifiuterebbero, e a ragione mi verrebbe da dire. È fondamentale ancora una volta l’insegnamento di Dante: la luce cristiana che penetra la sua opera non è un cristianesimo ridotto a meri valori da salvaguardare, l’intera Divina Commedia imploderebbe su se stessa se fosse un discorso sui valori. Il mio connazionale Fabrice Hadjadj usava un’immagine efficace per descrivere i valori cristiani: sono come una bellissima rosa posta dentro un vaso in mezzo ad una stanza. All’inizio rallegrerà l’ambiente e spanderà un buon profumo, ma alla lunga marcirà diffondendo un cattivo odore. Ecco, i valori cristiani senza Cristo sono come quella rosa staccata dalle sue radici. È indispensabile, secondo me, che l’uomo di oggi recuperi una tensione ideale verso qualcosa che può irrompere nella nostra esperienza quotidiana con una potenza, direi, sovversiva. In questo senso Dante è un grandissimo educatore, nel senso etimologico del termine, uno che conduce, che fa un cammino insieme a te perché era uno che prendeva sul serio tutta la sua umanità, senza censurare nulla. E si capisce perché qualcuno possa appassionarsi a lui talmente tanto da dedicargli la vita».


Pubblicato su La Sicilia lunedì 19 Maggio 2014

venerdì 18 aprile 2014

Barabba, il carcerato che incontra Cristo ma rimane scettico

[foto D. Anastasi]
Per la quinta volta nell’arco di due anni la casa circondariale di piazza Lanza si trasforma in un palcoscenico nel quale i detenuti diventano attori, costumisti  e spettatori privilegiati.  E dopo l’opera teatrale di Sartre, rappresentata lo scorso gennaio, ad andare in scena questa volta è stato il “Barabba”, capolavoro dello scrittore e premio Nobel svedese Pär Lagerkvist, uno scritto che racconta, grazie alla possente vis creativa del suo autore, le vicende successive alla morte di Cristo occorse al malfattore che la folla dei giudei di Gerusalemme ha voluto a gran voce libero proprio al posto di Gesù. L’incontro con il Nazareno nella vita di Barabba, seppur per un breve istante, ha fatto irruzione in modo del tutto imprevisto e segnerà intensamente la sua vita: egli avrò sempre la percezione confusa di aver fatto un incontro eccezionale, però non riuscirà mai a dare un nome a questa Presenza non comprendendo quindi fino in fondo il senso più vero di quell’incontro. Il suo imbattersi poi durante le sue peripezie in Pietro e nei discepoli e in altri personaggi come la Leporina o lo schiavo frigio Sahak, gli ricorderanno ancora una volta il volto di quell’Uomo che lo ha salvato dalla croce ma egli anche allora non comprende rimanendo pervicacemente ancorato alla sua solitudine e alla sua ambiguità. Si tratta di un testo assai complesso nato come romanzo e che dunque ha dovuto essere ridotto e adattato alla forma teatrale. Un progetto questo che è riuscito a concretizzarsi grazie anche all’eccellente collaborazione con la direzione del carcere, nella persona della dottoressa Elisabetta Zito e del comandante della polizia penitenziaria, Salvatore Tramontana. A guidare i detenuti-attori nella realizzazione di questo dramma per mezzo del laboratorio espressivo-teatrale è stato ancora una volta Alfio Pennisi, preside del liceo Spedalieri, e tutti i volontari della cappellania in sinergia con gli educatori ed i professori che operano all’interno del carcere catanese. Giovanna Pappalardo, una delle volontarie, insieme alle detenute, ha curato meticolosamente la realizzazione dei costumi di scena che gli attori hanno poi indossato durante la rappresentazione. Si tratta ovviamente di attori non professionisti ma la grandissima attenzione e il clima di grande silenzio da parte  dei detenuti che affollavano le panche della cappella del carcere, prestata per l’occasione a divenire il palcoscenico della rappresentazione, hanno testimoniato il grande impegno e la dedizione che i detenuti-attori hanno messo in questo lavoro e che per molti è stata la grande occasione di scoprire talenti nascosti di cui non sospettavano l’esistenza.  Nell’intero arco della giornata si sono svolte tre repliche, due alla mattina, per consentire a tutti i detenuti di partecipare, e una al pomeriggio riservata esclusivamente ai familiari degli attori. È questo forse il momento più intenso ed emozionante perché attori e pubblico sono profondamente uniti gli uni agli altri e così il dramma che tocca Barabba pare diventare il dramma di ciascuno di noi: imbattersi nell’evento eccezionale del Dio fatto uomo, subirne tutto il fascino, ma rimanere ultimamente ai margini senza comprendere davvero quello che ci è accaduto. Eppure la messa in scena di questo spettacolo nel cuore della Settimana Santa, nell’imminenza delle festività pasquali vuole forse ricordare ad ognuno che, come ha ricordato il Papa, «non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, [perché] sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso di ogni cosa». Un episodio contribuisce ad avvalorare e a dare ancora più consistenza a queste parole: la mattina della rappresentazione viene comunicato all’attrice che impersonava la Leporina  che le sono stati concessi i domiciliari. Lei però ha deciso di rimanere in carcere  qualche ora in più per poter recitare nel pomeriggio davanti ai suoi familiari.

Pubblicato su La Sicilia giovedì 17 Aprile 2014

mercoledì 16 aprile 2014

Wojtyla e Roncalli santi, evento mediatico in 3D

Tre milioni di persone, in pratica l’equivalente degli abitanti di Roma, sono attese il 27 aprile in piazza S. Pietro e nelle zone limitrofe per assistere alla canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, i due papi che hanno segnato la storia della Chiesa e del mondo. Un numero impressionante certo, ma irrisorio se paragonato alle decine di milioni di persone che, pur non essendo fisicamente presenti a Roma, vorranno partecipare a quest’ avvenimento così importante. Chi si occuperà di portare Roma al mondo intero domenica 27 aprile sarà il Centro Televisivo Vaticano che ormai da molti mesi è all’opera per organizzare e gestire dal punto di vista mediatico l’evento dell’anno. A guidare tutte le operazioni c’è Mons. Dario Edoardo Viganò, direttore del CTV, al quale abbiamo chiesto di raccontare in che modo lui ed i suoi collaboratori si stanno preparando ad affrontare questa sfida appassionante.

Mons. Viganò da quanto tempo state lavorando alla gestione mediatica delle canonizzazioni del prossimo 27 aprile?
«Nell’ottobre dello scorso anno abbiamo dato forma alla nostra idea e abbiamo individuato alcuni partner tecnologici a cui avremmo potuto presentare il progetto. Dopo un paio di mesi in cui ci sono stati alcuni briefing preparatori in cui abbiamo messo meglio a fuoco i dettagli, a dicembre abbiamo organizzato un meeting al quale sono stati invitati i partner tecnologici che avevamo scelto e abbiamo fissato un piano di lavoro con scadenze ben precise. Giusto in questi giorni abbiamo una serie di incontri, molto ravvicinati nel tempo, per mettere a punto gli ultimi particolari tecnici».

Che ruolo ha svolto in passato la televisione nel comunicare gli eventi ecclesiastici?
«La televisione, che ha raccontato per la prima volta il Vaticano II, ha permesso di far comprendere che la Chiesa è un insieme di diversità e raggruppa, tenendole insieme, persone che provengono da mondi affatto diversi. La cattolicità, cioè l’universalità della Chiesa, un concetto relegato fino ad allora alla sfera teologica, è stata resa manifesta grazie alla televisione che ha mostrato al mondo i volti, i colori della pelle e gli abiti dei tanti vescovi che partecipavano al Concilio».

E oggi quali sono le principali novità che verranno introdotte considerando che non è la prima volta che il CTV gestisce la comunicazione di un grosso evento mediatico riguardante la vita della Chiesa?
«Ci saranno tre segnali di produzione, tutti e tre prodotti dal CTV, in tre formati differenti. Avremo l’ HD, che è il nostro formato tradizionale, il 3D e poi anche  l’ultra HD o 4K. Il motivo per cui abbiamo scelto di differenziare in questo modo i segnali risponde ad una diversa modalità di comunicare l’evento delle canonizzazioni: il “classico” HD è quello usato nel circuito internazionale e trasmesso da tutte le televisioni del mondo. Ho scelto invece la tecnologia 3D pensando alle moltissime persone che magari vorrebbero essere presenti ma che di fatto, soprattutto in questo momento di crisi in cui diventa problematico affrontare spese di viaggio e soggiorno a Roma, non potranno esserci. Il 3D allora è stato pensato non come curiosità tecnologica, ma per consentire a coloro i quali possiedono una smart TV di percepirsi “dentro”, come se fossero in mezzo alla gente in piazza S. Pietro e dunque di vivere una fruizione totalmente immersiva dell’evento. Il 4K è un formato che ancora non può essere distribuito in Italia ma è stato scelto per soddisfare una delle mission del CTV che è quella della documentazione. Questo formato infatti potrà essere molto utile tra qualche anno agli storici per le loro ricerche presso gli archivi audiovisivi che presto affiancheranno le biblioteche cartacee, anzi dirò che una delle nuove frontiere della ricerca storica sarà proprio la “visual history”».

A proposito del 3D quale potrebbe essere, secondo lei, il valore aggiunto di questa tecnologia in un evento ecclesiale di così grande portata?
 «Abbiamo pensato di distribuire il segnale 3D, oltre alle case che dispongono di TV adatte, anche nei cinema che supportano la tecnologia a tre dimensioni. In questo senso fino ad oggi ci è pervenuta la richiesta da oltre venti paesi, dall’America all’Australia, di poter distribuire il segnale in oltre 600 sale cinematografiche del mondo. Ecco allora che il valore aggiunto del 3D appare evidente perché un grandissimo numero di persone potrà “vivere” l’avvenimento di piazza S. Pietro come se si trovasse realmente lì. In questo senso abbiamo scelto accuratamente dopo tre sopralluoghi la dislocazione delle 13 telecamere in 3D, oltre a quelle in HD e 4K, in modo tale da enfatizzare al massimo l’effetto tridimensionale rispettando comunque le esigenze della celebrazione liturgica».

Lei personalmente come sta vivendo l’attesa del 27 aprile?
«Beh diciamo con grande fatica perché questi incontri preparatori sono stati e sono molto complessi; con grande senso di sfida perché un evento del genere, di portata mondiale, non è mai stato realizzato in questo modo, basti pensare al fatto che verranno utilizzati ben nove satelliti mentre per le olimpiadi invernali di Sochi ne sono stati usati solo quattro; ma anche con grande tranquillità perché so di poter contare sull’intero staff del CTV che è costituito davvero da professionisti straordinari».


Pubblicato su La Sicilia mercoledì 16 Aprile 2014






giovedì 10 aprile 2014

Violini: "Sentenza demolitiva"

Nel decimo anno dall’entrata in vigore della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita un pronunciamento della Corte Costituzionale rischia seriamente di far naufragare un provvedimento che, sin dalla sua promulgazione, ha suscitato una miriade di polemiche tra coloro che vedevano in esso una sorta di argine al “far west” procreativo e coloro che invece vi ravvisavano una violazione dei diritti delle singole persone alla propria autodeterminazione. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli della legge riguardanti la fecondazione eterologa che consiste nella possibilità di ricorrere a gameti “esterni” alla coppia se uno dei due partner è sterile. Abbiamo chiesto a Lorenza Violini, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano, che si è trovata a Catania per partecipare ad un seminario su “Europa dei diritti e della persona” organizzato dal Camplus d’Aragona, un giudizio su questa decisione della Corte Costituzionale.
Professoressa qual è la sua opinione sulla sentenza della Consulta?
«Mi sembra una sentenza molto particolare perché compie una valutazione sostanziale di alcuni articoli cardine della legge che invece a mio avviso avevano una loro razionalità. Si tratta tra l’altro di una sentenza demolitiva in quanto dichiarando incostituzionali sia l’articolo 4, sia il 9 che il 12 è come se estirpasse dalla legge tutto il divieto fino alle radici lasciando campo libero alle scelte dei singoli e dei medici e non definisce ad esempio se la donazione dei gameti deve essere gratuita o a pagamento. Non chiarisce inoltre le posizioni giuridiche del donatore rispetto al figlio e le posizioni giuridiche del padre rispetto al figlio il quale, non essendo “geneticamente” suo, può essere disconosciuto, cosa che l’articolo 9 comma 1 della legge invece proibiva. Tutto questo devo dire mi sembra un risultato abbastanza sconcertante».
Secondo lei ci troviamo di fronte ad un mutamento del concetto di madre in forza dell’arbitrio del legislatore?
«A questo punto credo di sì. Abbiamo modificato la legge e quindi abbiamo modificato un elemento sostanziale che è proprio il concetto di madre. Anche questo è un elemento sorprendente perché di norma succede il contrario: non è l’elemento giuridico a cambiare la sostanza, ma è la sostanza che cambia l’elemento giuridico. Siamo di fronte a fenomeni la cui portata in questo momento ci è oscura ed anche le conseguenze giuridiche e sociali per il momento restano oscure. Io auspico davvero che si apra un confronto forte proprio sulla sostanza delle cose, sul senso della maternità e della paternità».
Oggi manca un confronto serio a suo giudizio?
«Ne sono convinta. Oggi si stanno eliminando tute quelle barriere che l’ordinamento ha introdotto perché le ha giudicate razionali all’interno sempre di limiti naturali ma sugli effetti di questa eliminazione invece non si ragiona, non c’è un confronto semplice, serio, senza pregiudizi. Si operano, ancora una volta, interventi giurisprudenziali che agiscono palesemente sul senso della norma. Sono scelte unilaterali, che dovrebbero essere applicate al caso singolo ed invece hanno un riverbero importante sulla generalità. Questo, ancora una volta, è un fenomeno che deve far riflettere perché ultimamente ogni giudice può diventare l’arbitro della legge. Si fa presto ad abolire i limiti, ma ricostruirli poi a fronte di questioni che nel tempo dovessero emergere diventa davvero molto più complicato».
I detrattori della legge 40 affermano che le norme devono evitare di porre limiti alla libertà personale…
«Una posizione che in effetti oggi è vincente perché, secondo me, va a pescare in quella naturale ed infinita tendenza che l’uomo ha di essere felice.Ma questo desiderio infinito dell’uomo però non può coincidere con l’illimitatezza delle sue pretese, né tantomeno la legge può diventare lo strumento per rispondere a questa infinitezza de desiderio. Sono questioni che impegneranno seriamente non solo noi giuristi ma anche la società nella sua interezza.


Pubblicato su La Sicilia giovedì 10 Aprile 2014




martedì 25 marzo 2014

Davanti alla bellezza siamo tutti uniti

La professoressa Wakako Saito, buddista di tradizione Shingon Mikkyo e docente di lingua e cultura italiana all’università di Nagoya, mai avrebbe potuto immaginare che ciò che le è accaduto nel lontano 1987 l’avrebbe un giorno portata a Catania a raccontare la sua storia. Ad ascoltarla e interrogarla c’è un nutrito gruppo di studenti del liceo Spedalieri. Con loro la prof giapponese dialoga sulle questioni più importanti della vita come il senso del dolore e della morte, la ricerca della felicità e l’apertura al Mistero.

Professoressa com’è nato questo forte legame d’amicizia con l’Italia?
«Durante la Settimana italiana del centro internazionale del Comune di Nagoya, dovevo organizzare una conferenza proprio sull’Italia e mi domandavo quale sarebbe stato l’elemento peculiare su cui incentrare la discussione. La cucina? Ma la cucina italiana è nota, la pizza, gli spaghetti li facciamo anche noi giapponesi anche se voi siete insuperabili. La moda forse? Ma neanche quella mi sembrava soddisfacente perché desideravo parlare di qualcosa che esprimesse la radice più profonda della cultura italiana. Ho pensato allora che questa fosse da ricercarsi nel cristianesimo, perché è proprio il cristianesimo che ha creato la cultura dell’Italia. Una mia amica italiana allora mi ha suggerito di invitare un certo mons. Luigi Giussani, che insegnava all’Università Cattolica di Milano, a parlare del cristianesimo. Io l’ho invitato ma non consideravo certo che sarebbe venuto: troppo impegnato con i suoi giovani, troppo lontano il Giappone, pensavo… E invece ha accettato! Da quel giorno è nata una grande amicizia con i monaci buddisti del monte Koya ed in particolare con Shodo Habukawa il mio maestro».

Un’amicizia che l’ha condotta fin qui a Catania…
«Sì, non avrei mai immaginato che un giorno sarei venuta dal Giappone in Sicilia, a Catania e avrei visto così tante cose belle e incontrato così tanti giovani. Non l’ho progettato, ma il Mistero, grazie al quale tutto accade nella mia vita, mi ha portato sino a qui».

Lei usa questa parola Mistero. Ma cos’è il Mistero per la tradizione buddista?
«Nel Buddismo esistono tante divinità diverse tramite le quali possiamo incontrare il Mistero. Inoltre, secondo la nostra tradizione, la contemplazione della ricchezza e della bellezza della natura ci consente di abbracciare sempre più il Mistero».

Due questioni che spesso vengono avvertite in modo più evidente dai giovani riguardano il senso del dolore e la ricerca della felicità. Noi occidentali pensiamo che per il Buddismo la felicità implichi una fuga dalla realtà. È davvero così?
«Nient’affatto! Il Buddismo non è una religione che contempla la fuga dalla realtà, noi buddisti accettiamo la vita con le sue difficoltà, le sue sofferenze e siamo anche noi alla ricerca della felicità come voi cristiani. I giapponesi per cultura ed educazione sono abituati a non manifestare esternamente i propri sentimenti, ma sono molto sensibili al dolore e alla morte. Quando c’è stato il grande terremoto del 2011 con quello tsunami terribile io mi trovavo in Italia ed ho pianto moltissimo al vedere quelle scene spaventose di morte e devastazione. I miei amici italiani mi hanno subito chiamato per confortarmi e mi hanno domandato cosa potevano fare per aiutarmi. Ricordo che abbiamo fatto un momento di preghiera in una scuola con i bambini, i quali hanno poi realizzato dei disegni da donare ai bimbi giapponesi, si è pregato per il Giappone nel duomo di Milano. Ma per noi buddisti oltre alla preghiera è importante l’azione: tornata in Giappone ho chiesto ai miei studenti la disponibilità ad organizzare opere caritative per sostenere le persone che avevano perso tutto. Questa è una cosa che ho imparato dal metodo cristiano!».

Cosa la colpisce maggiormente della tradizione cristiana?
«Approfondendo la vostra cultura mi sono accorta di quante affinità ci siano con la cultura e la tradizione giapponese: i monaci cristiani hanno creato la cultura italiana così come i monaci buddisti hanno creato la cultura giapponese. Il fondatore del Buddismo Shingon Mikkyo, quello più diffuso in Giappone, è stato il monaco Kobo Daishi vissuto tra l’VIII ed il IX secolo dopo Cristo, il quale si è stanziato sul monte Koya, una sorta di Terra Santa giapponese, ed ha fondato un’università per i più poveri. Gli anni trascorsi in Italia mi hanno fatto capire inoltre cos’è l’ecumenismo: non una tolleranza astratta secondo la quale, se ti vedo diverso da me, per venirti incontro devo modificare qualcosa di me così diventiamo amici. Assolutamente no! Per diventare amici con persone che sono diverse da me per lingua, tradizioni e religione, innanzitutto devo capire meglio chi sono io. Chi sono io come giapponese? Chi sono io come buddista? Ecco, ciascuno di noi deve scendere più nella profondità della sua esperienza personale e delle sue radici culturali e religiose. Venendo in Italia ho potuto vedere dovunque la bellezza del cristianesimo e questo mi ha aiutato moltissimo ad andare più in profondità nella mia esperienza buddista. Non a caso ai miei studenti di cultura italiana faccio leggere Dante Alighieri: lì si esprime tutta la bellezza del cristianesimo. Non dimenticatevi di questa bellezza, perché davanti alla bellezza siamo tutti uniti».


Pubblicato su La Sicilia venerdì 21 Marzo 2014


sabato 15 marzo 2014

La storia di Valentina, la 194 e la legge 40. Se la polemica nasconde il vero dramma:l'aborto

Qualche giorno fa il Comitato europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa ha bacchettato l’Italia per violazione dei diritti derivanti dalla legge 194. Troppi medici obiettori, sentenzia il Consiglio d’Europa, impediscono alle donne che vogliono interrompere la gravidanza di non poter esercitare i diritti concessi loro dalla legge. Sempre nei giorni scorsi, quasi in contemporanea, è saltata fuori la storia della giovane donna di 28 anni che ha abortito in un bagno dell’ospedale Sandro Pertini di Roma e che ha riacceso le polemiche tra quanti difendono la liceità dell’aborto trincerandosi dietro la legge 194 e quanti invece sostengono con forza la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza. La vicenda in particolare è però un po’ più complessa di quel che appare e riguarda anche il dibattito intorno alla legge 40 sulla fecondazione assistita su cui in questi mesi sono stati sollevati dubbi di costituzionalità. La storia risale alla fine di ottobre del 2010, quasi quattro anni fa: Valentina Magnanti risulta portatrice sana di una “traslocazione reciproca bilanciata tra il braccio corto di un cromosoma 3 ed il braccio lungo di un cromosoma 5”, una grave malattia genetica, ma è fertile e dunque non può avvalersi della legge 40 la quale in questi casi garantirebbe anche la diagnosi pre-impianto che, com’è noto, implica la selezione degli embrioni con conseguente eliminazione di quelli malati a favore di quelli sani che possono così essere impiantati nell’utero materno. Il suo desiderio di maternità è però molto forte e alla fine arriva la gravidanza tanto desiderata. Ben presto però si scopre, attraverso una “villocentesi per lo studio del cariotipo fetale”, che la piccola nel grembo di Valentina è affetta da una gravissima malattia genetica che le lascerebbe poche settimane, se non addirittura pochi giorni di vita. La donna, d’accordo con il marito, decide di porre fine alla gravidanza giunta al quinto mese e si ricovera al “Sandro Pertini”. E qui accade l’episodio che in questi giorni ha scatenato su giornali, web e tv, una ridda di polemiche, indignazioni, prese di posizione: Valentina, racconta lei stessa, nel momento di maggior necessità, quando ormai le erano state indotte le contrazioni per il parto, viene abbandonata e, dopo quindici ore è costretta a partorire il feto morto nel bagno dell’ospedale assistita solo dal marito. Dopo questa esperienza drammatica i due coniugi decidono di intraprendere la via della fecondazione assistita con la diagnosi pre-impianto, ma non essendo sterili non possono accedervi. Si rivolgono allora al tribunale di Roma assistiti dagli avvocati Filomena Gallo e Angelo Calandrini, segretario e membro dell’Associazione Luca Coscioni. Il tribunale di Roma il 28 febbraio scorso ha emesso un’ordinanza nella quale solleva dubbi di legittimità costituzionale della legge 40 con le motivazioni che è “diritto della coppia avere un figlio sano” e che il diritto di “autodeterminazione nelle scelte procreative è inviolabile e costituzionalmente tutelato”. La parola adesso spetta alla Consulta che dovrà pronunciarsi nel merito l’otto aprile prossimo. Tutta la vicenda è stata resa nota lunedì scorso durante una conferenza stampa dell’Associazione Coscioni dalla stessa Magnanti. Fin qui i fatti. Ma a parte i dubbi che solleva la tempistica ad orologeria con cui la notizia è stata diffusa dopo quasi quattro anni dagli eventi e che sembra voler infliggere un altro colpo alla legge 40 che, sentenza dopo sentenza, la magistratura sta demolendo in barba alla sovranità del Parlamento che quella legge l’aveva legittimamente votata, oltre al fatto che le dichiarazioni della donna contrastano nettamente con quelle della Asl di Roma, questa è una storia che deve far riflettere, che non può non far emergere grandi interrogativi. Nella relazione degli avvocati Gallo e Calandrini pubblicata online sul Sole24ore in un passaggio si legge che «la coppia era costretta ad interrompere volontariamente la gravidanza». Perché “costretta”? Perché un padre e una madre devono essere costretti a sopprimere la vita di un figlio? In nome di cosa? È sufficiente rispondere “perché la legge lo consente”? L’aborto è diventato un dogma della modernità, intoccabile, immutabile, indiscutibile. Un dio spietato al quale offrire la nostra illimitata pretesa di autodeterminazione, complice anche la nostra idea distorta e mostruosamente darwiniana per cui merita di vivere solo colui che è sano e senza difetto; un’idea orrenda ed egoista di pietas che esige la soppressione del figlio per risparmiargli la sofferenza di una vita penosa e indegna, quando in fondo è la nostra di sofferenza che vogliamo risparmiarci; la nostra pretesa (assurda) del diritto al figlio, di essere padri e madri solo a determinate condizioni, come se migliaia di anni di storia umana non ci avessero insegnato che ogni persona è irriducibile a qualsiasi pretesa di dominio, fosse anche quella dei nostri genitori che ci vogliono sani e belli. Non che questo desiderio non sia legittimo, ci mancherebbe! Ma è proprio questa confusione tra desiderio e pretesa che ha prodotto nel tempo immani disastri. L’aborto è il frutto anche di una profonda solitudine in cui la donna incinta si trova immersa, un ambiente ostile (quello sanitario in primis) che al minimo problema, anziché condividere il dramma e la difficoltà, aiutando la donna a prendere coscienza che ciò che porta nel grembo non è un’escrescenza patologica, ma suo figlio,  preferisce spingerla verso l’interruzione della gravidanza. Questo è quello che ha vissuto Valentina, questo è quello che hanno vissuto migliaia di donne. Siamo realmente convinti che la 194 ci ha portato progresso, benessere e civiltà? Oppure che la fecondazione artificiale o la diagnosi pre-impianto, invasive oltre ogni immaginazione, siano la panacea di tutti i mali? Sono domande che una società che vuol davvero chiamarsi civile non può non farsi.


martedì 11 marzo 2014

Giovanni XXIII spiegato ai bambini

Il nome di Giovanni XXIII è legato spesso a quello di scuole e ospedali, è entrato nella toponomastica cittadina a denominare vie e piazze, ma i più giovani (e forse anche qualche adulto) probabilmente non sarebbero in grado di associare un volto a questo nome. E in effetti coloro che c’erano già al tempo di papa Giovanni oggi sono padri e madri, forse perfino nonni. Eppure Giovanni XXIII, il Papa buono, è stato a suo modo un rivoluzionario, è stato colui che ha indetto il Concilio Vaticano II inaugurando una stagione entusiasmante per la vita della Chiesa. Tra poco più di un mese questo gigante della fede sarà proclamato Santo, assieme all’altro suo grande successore Giovanni Paolo II. È bene allora che anche ai più piccini si racconti la storia di papa Giovanni, che proprio per loro aveva una speciale predilezione. A questo proposito è stato recentemente pubblicato un testo a cura di Marco Pappalardo, “Giovanni XXIII” (Il pozzo di Giacobbe, 2014), nel quale viene narrata la storia del Papa buono, un testo scritto apposta per i più piccoli, i quali possono così accostarsi con semplicità alle storia di questo santo straordinario. Grazie anche ad un apparato di illustrazioni molto ben curato, si racconta infatti la vicenda di don Angelo Roncalli, un parroco di umili origini proveniente da un paesino della provincia di Bergamo che è divenuto successore di S. Pietro. Giovanni XXIII, nel suo pur breve pontificato, è riuscito a conquistare l’affetto di tantissime persone, dentro e fuori la Chiesa, divenendo in brevissimo tempo uno dei papi più amati dei nostri tempi.


Pubblicato su La Sicilia sabato 8 Marzo 2014

domenica 2 marzo 2014

Giovani alla ricerca di adulti che offrano ipotesi per la vita

«Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità». Così scrivevano nel febbraio 2007 gli studenti del liceo Spedalieri di Catania, all’indomani dei tragici fatti del Massimino in cui perse la vita l’ispettore Raciti. Una lettera che ha avuto una vasta eco e che ha suscitato una vivace discussione tra i docenti e gli studenti di quella stessa scuola. Un gruppo di 28 insegnanti infatti dopo la pubblicazione della lettera scrissero una contro risposta nella quale affermavano che proporre «delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica». In questo dibattito si era inserito il prof. Pietro Barcellona, impressionato evidentemente dalla forza delle domande che emergevano nella lettera dei ragazzi, il quale scrisse a sua volta un editoriale su La Sicilia sostenendo che «scuola laica non significa neutrale» perché «chi insegna ha il dovere di esplicitare i propri valori e le proprie verità». Inoltre egli sosteneva che «la giusta esigenza dell’onestà intellettuale implica che chiunque parli dichiari in principio le proprie credenze e sia disponibile a metterle in discussione. È l’apertura all’altro, che garantisce la laicità e non il vecchio paravento della “neutralità”». Alcuni anni dopo un professore di Pedagogia generale dell’Università Cattolica, Giuseppe Mari, profondamente colpito dalle parole di Barcellona decide di incontrarlo e da quell’incontro è venuto fuori un libro-intervista che, man mano che si procede nella lettura, somiglia molto più al dialogo tra due amici di vecchia data, dal titolo “La sfida della modernità” (Editrice La Scuola, 2014).

Professore, cosa l’ha colpita maggiormente nell’incontro con il prof. Barcellona?
«La cosa che mi ha impressionato di più è che nonostante avessimo due orientamenti di fondo differenti, e due storie differenti, ci siamo incontrati su un terreno comune. E questo terreno comune è l’umanità, cioè il riconoscimento che l’essere umano ha qualcosa di particolare, qualcosa che già 2500 anni fa Eraclito chiamava il “Logos”, affermando che esso rende comune la realtà. Diceva il filosofo greco che per coloro che hanno il Logos l’esistente può essere avvicinato in maniera comune, mentre coloro che non fanno leva sul Logos vivono ciascuno racchiuso nel suo sonno. E mi domando se quest’immagine, dell’essere racchiusi nei propri sonni, non corrisponda a tante forme surrogate che oggi insidiano in particolare la vita giovanile e si configurano come fuga dalla realtà. Pensiamo infatti alle numerose forme di “addiction”, di dipendenza. Sono tutte esperienze che alla fine ci fanno sentire isolati all’interno di un mondo che ci siamo costruiti semplicemente per compensare le nostre frustrazioni.»

A proposito della famosa lettera redatta dagli studenti dello Spedalieri nel 2007 lei afferma nel libro che i ragazzi chiedevano alla scuola di affrontare esplicitamente le questioni etiche. Non le sembra che in gioco ci fossero ben più che le questioni etiche?
«L’etica non è staccata dalla vita, è una lettura sbagliata quella che ha portato a ritenere che l’etica sia una specie di facciata che nasconde la realtà. L’etica raccoglie le risposte alla domanda “che cosa è buono?” e questa domanda noi ce la poniamo di fronte ai fatti che ci sfidano. I ragazzi di fronte al tragico evento dell’uccisione dell’ispettore Raciti, si sono chiesti che cosa fosse accaduto, ma non sul piano della mera descrizione, bensì cercando di inquadrare questo fatto all’interno della vicenda umana. Barcellona si è introdotto in quel dibattito sottolineando come la laicità della scuola non significa neutralità, perché l’essere umano in quanto libero è un soggetto intenzionale. Anche quando dice di volersi elevare al di sopra delle parti in realtà assume sempre un punto di vista. Occorre quindi affermare schiettamente come la pensiamo entrando in un dialogo pacifico tra posizioni che vogliono andare a riconoscere la verità, cioè quell’elemento originario che si specchia nella realtà come condizione di partenza».

Lei accennava prima a queste “forme surrogate” che oggi insidiano la vita giovanile. Il prof. Barcellona nel dialogo con lei denunciava il fatto che i giovani sono diventati quasi una tabula rasa, non perché sono privi materialmente di riferimenti identitari, ma perché ne sono privi spiritualmente, soprattutto perché i padri hanno abdicato alla loro funzione.
«I giovani di oggi sono alla ricerca di adulti, cioè sono alla ricerca di gente che faccia loro delle proposte e non si tiri indietro rispetto a delle ipotesi o a degli orientamenti. Mente spesso gli adulti sono intimoriti ma questo è un grave errore, non devono avere paura di incontrare i ragazzi. Nel mio dialogo con il prof. Barcellona egli sottolineava proprio il fatto che ciascuno di noi quando entra in contatto con un giovane, è un modello che può anche essere rifiutato ma comunque costituisce un punto di riferimento. In questa direzione il ruolo della scuola è fondamentale. Mi viene da dire che la scuola è nata proprio come istituzione di cui la società si è dotata proprio per introdurre in essa i giovani. È un luogo che deve favorire l’emergere della domanda di senso, intesa non nella sua connotazione narcisistico-autoreferenziale, per cui ha senso solo ciò che mi soddisfa, ma come la direzione che fa crescere nella dignità. Per questo affermare che la libertà, che ci caratterizza in quanto uomini, si riduce alla semplice opzione è sbagliato, perché noi siamo liberi non quando scegliamo, ma quando scegliamo solo quello che ci merita, ossia il bene, ciò in cui si specchia il valore della nostra vita». 


Pubblicato su La Sicilia domenica 2 Marzo 2014

sabato 1 marzo 2014

E' la dignità la vera eredità di Solidarnosc

«Non sono un eroe». Così si schermiva nel 1981 Lech Walesa, storico leader e fondatore di Solidarnosc, a chi, osannandolo, gli domandava quale fosse il “segreto” del suo immenso successo che nel volgere di poco tempo aveva contagiato milioni di polacchi. Lo stesso Walesa proseguiva poi dichiarando che l’unico motivo per il quale moltissima gente lo seguiva era uno solo: perché diceva la verità. «Qualunque sia il sistema se non ci si fonda sulla verità e sull’onestà, non si ha nessuna possibilità. La verità è l’uomo. Non si può fare nulla contro la verità. Non la si può distruggere». Relegare dunque l’esperienza di Solidarnosc ad un passato ancorché recente ritenendola definitivamente tramontata è un’operazione antistorica perché in un tempo in cui l’identità della nostra vecchia Europa vacilla e ci si avvita su discussioni spesso sterili in materia di diritti reali o presunti, l’eredità del sindacato polacco può servire per riportare al centro del dibattito europeo il Soggetto, inteso non come individuo “e vinculis solutus”, ma come persona inserita in un contesto di relazioni più ampie che costiuiscono una civiltà. Da queste preoccupazioni nasce “Operazione Solidarnosc” (Salvatore Sciascia Editore, 2014) di Vincenzo Grienti che, attraverso una rigorosa indagine storica e utilizzando documenti e fonti dell’epoca, vuol mettere in evidenza quel fenomeno assolutamente originale ed inusitato che si è sviluppato in Polonia, un Paese del blocco sovietico ed in piena guerra fredda: la nascita del primo sindacato libero. Si tratta – secondo Grienti – della prima incrinatura al muro di Berlino che sarebbe poi definitivamente crollato nel 1989. Il volume dunque ripercorre la storia della Polonia nel secondo dopoguerra concentrandosi maggiormente negli undici anni (1978-1989) che effettivamente videro lo sbriciolarsi lento ma inesorabile del blocco comunista nell’Europa dell’Est. Il 1978 non è scelto a caso come punto di partenza perché è proprio quello l’anno in cui il polacco Karol Wojtyla diviene Giovani Paolo II, un pontefice che già l’anno successivo durante la visita nella “sua” Polonia mostra a tutto il mondo il profondo legame che esiste con la Sede Apostolica. Le vicende del pontificato si intrecciano dunque con quelle del sindacato guidato da Lech Walesa e con l’intensa attività diplomatica della Segreteria di Stato vaticana in favore della pace, del rispetto dei diritti umani e della dignità di ogni persona. Proprio la parola “dignità” sembra essere – nel testo di Grienti – la chiave per comprendere la portata dell’eredità di Solidarnosc. La grandezza dell’uomo infatti consiste nella sua dignità dalla quale scaturiscono i diritti inalienabili che guidano la persona all’interno delle relazioni che in ogni circostanza storica essa si trova a vivere. 


Pubblicato su La Sicilia domenica 9 Febbraio 2014