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martedì 15 settembre 2015

Eva Mascolino: "La mia scrittura parte dalla realtà".

[foto ANSA]
Due anni fa era tra i venticinque semifinalisti del “Campiello giovani”, il premio letterario riservato agli scrittori in erba con un'età compresa tra i 15 e i 22 anni; oggi la ritroviamo vincitrice, ancora un po' incredula, della ventesima edizione del concorso. Eva Mascolino, studentessa di Lingue e culture straniere all’università di Catania, questa volta è riuscita a convincere i giudici che, il 12 settembre scorso, hanno deciso di premiare il suo “Je suis Charlie”.

Eva quali sono state le prime sensazioni che hanno accompagnato la vittoria del “Campiello giovani”?
«Innanzitutto molto stupore perché davvero non mi aspettavo di vincere. Un'altra sensazione è stata certamente di orgoglio perché la notizia è stata accolta in Sicilia con grande gioia, molta gente mi ha telefonato dicendomi che era fiera di me e che la mia vittoria dava lustro a tutta l'Isola. Spesso si ritiene infatti che la qualità dell'istruzione nel meridione sia inferiore e quindi la vittoria in un concorso letterario di una persona che si è formata interamente al Sud è una bella soddisfazione per tutti».

Nella prima intervista su questo giornale raccontavi come scrivere fosse sì un aspetto importante nella tua vita ma quasi una sorta di hobby. Alla luce di questa vittoria come cambia il tuo rapporto con la scrittura?
«Beh non è mai stata solo un hobby, io ho sempre puntato sul fatto che da grande per me sarebbe divenuta qualcosa d'altro. Adesso siamo vicini al punto, i cui contorni sono ancora un po' sbiaditi, in cui può diventare anche un mestiere. Il mio ideale sarebbe scrivere opere, curare personalmente la traduzione in altre lingue in modo che il messaggio che desidero comunicare arrivi senza la mediazione di terzi e poi, nel tempo libero, dedicarmi al giornalismo».

Tu studi Lingue all’università di Catania, attualmente ti trovi in Francia per il progetto “Erasmus”, il protagonista del tuo racconto è un francese e la storia si snoda tra la Sicilia e Parigi sullo sfondo del terribile attentato alla redazione di “Charlie Hebdo”. C'è qualcosa che ti lega particolarmente al paese transalpino?
«Certamente sì. Il mio racconto era nato inizialmente proprio per raccontare la bellezza di Parigi, una bellezza che può diventare ossessiva, una bellezza che può far male, fino a far perdere addirittura l'orientamento di sé. Mi è capitata fra le altre cose una cosa piuttosto singolare: ho realizzato l'ambientazione del mio racconto molti mesi prima di conoscere la destinazione del mio Erasmus. Scoprire poi che avrei studiato nella stessa città scelta da me come luogo di nascita del mio protagonista mi ha colpito profondamente. Quindi posso ben dire che tra me e la Francia c'è un legame profondo, viscerale quasi».

Volevi scrivere un racconto su Parigi, nel frattempo è accaduto l'attentato a “Charlie Hebdo”. Perché hai deciso di inserire questo fatto di cronaca nella costruzione del tuo lavoro?
«Non riuscivo a trovare una trama stabile sul tema della bellezza stordente di Parigi. Poi c'è stato l'attentato. Mi sono accorta che i media manifestavano un interesse molto morboso per tutto quello che era successo. L'attentato ha colpito tutti ma alcuni l'hanno enfatizzato specialmente perché è successo nella civilissima Europa, fosse successo in Etiopia nessuno se ne sarebbe occupato. Questa cosa mi ha indignata. Il mio personaggio, che nel nucleo narrativo originario già faceva il vignettista, l'ho collegato alla vicenda di Charlie Hebdo in modo tale da legare alla trama originale il tema della denuncia sociale».

La realtà in questo caso ha preso, quasi di forza, il sopravvento. Com'è per uno scrittore il rapporto con la realtà?

«La realtà è uno spunto fortissimo e di sicuro senza realtà non ci sarebbe scrittura perché la fantasia per mettersi in moto necessita di molti input esterni. La realtà è la materia prima per plasmare quello che penso, che sento e che poi vale la pena di scrivere. La scrittura poi secondo me è anche un modo per proteggersi perché attraverso di essa si decide cosa filtrare della realtà e anche si riesce a darle un'interpretazione, ad inserirla in un quadro che sia compiuto perché in un racconto ci sono sempre un inizio e una fine. Però la realtà è fondamentale. Senza realtà non scriverei nulla».

Pubblicato su La Sicilia martedì 15 Settembre 2015

sabato 1 agosto 2015

"Sono stata accolta e ho riscoperto la mia fede"

[foto Giovanna Leoni]
La storia di Evelyne e di suo marito Peter narra di un lungo viaggio, un viaggio pieno di insidie, di rischi e di sofferenze, ma racconta anche di un incontro carico di speranza e di un'amicizia nata dalla consapevolezza che «in qualsiasi cosa, se si è attenti, si possono cogliere i segni della presenza amorosa di Dio». Partiti dal Congo, quattro anni fa, dopo aver attraversato il Mediterraneo stipati come animali a bordo di uno di quei relitti che i trafficanti di esseri umani si ostinano ad utilizzare come barche per incrementare i loro sporchi affari milionari, lei e Peter giungono a Lampedusa da dove poi vengono trasferiti e alloggiati in un albergo del centro di Monza insieme ad altri profughi. «Nel 2010 abbiamo deciso di lasciare il nostro Paese – racconta Evelyne – soprattutto perché la situazione politica era molto instabile e tendeva progressivamente a degenerare». Evelyne e Peter non hanno intenzione di venire in Italia ma, più semplicemente, desiderano trovare migliori condizioni di lavoro e di vita. Così, a piedi e con mezzi di fortuna, risalgono mezzo continente africano e, all'inizio del 2011, giungono a stabilirsi a Kufra, una piccola oasi della Cirenaica, la regione sud-orientale della Libia in pieno Sahara. Lì Peter trova da lavorare e sembra che finalmente la giovane coppia abbia trovato una sistemazione definitiva senonché la rivoluzione libica scombina ogni loro piano e li costringe a spostarsi verso Tripoli da dove poi si imbarcano per l'Italia. «Dopo un viaggio estenuante, in cui per tre giorni siamo rimasti immobili nella stessa posizione, appiccicati gli uni agli altri, senza mangiare e senza bere, siamo approdati a Lampedusa dove siamo stati accolti e rifocillati, ci è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e subito, il giorno dopo, siamo stati imbarcati per Genova destinazione Monza». Nel gruppo di profughi che soggiornano in albergo c'è una ragazza incinta, una gravidanza a rischio, ha bisogno di assistenza medica. In un ospedale, dove alcuni di loro si recano per avere aiuto, conoscono Maria, un'ostetrica che prende a cuore la loro situazione. Anche lei vive a Monza e, appena tornata a casa, racconta a sua mamma dell'incontro fatto, insieme vanno a trovare i profughi in albergo, cominciano ad insegnare loro i rudimenti dell'italiano, danno suggerimenti pratici, nasce un'amicizia. Maria e sua mamma fanno parte di un movimento ecclesiale, quello di Comunione e Liberazione, e quest'incontro segnerà per sempre la vita di Evelyne e Peter. «Attraverso i volti di Maria, poi di Paola e di tanti altri ho riscoperto il grande amore che Dio ha per noi, la grandezza di quello che ha operato nella nostra vita: ripenso soprattutto al nostro viaggio, al fatto che siamo arrivati sani e salvi mentre tanti come noi sono finiti in fondo al mare, ma penso anche alla mia famiglia, alle mie bambine...» È dentro quest'amicizia che in Evelyne rifiorisce il desiderio di fare la Cresima che lei e Peter hanno ricevuto nel Duomo di Monza il 9 maggio scorso. «Sono cresciuta in una famiglia cattolica, mia mamma è una donna di grande fede e per questo motivo sono stata battezzata subito dopo essere nata. Di solito in Congo i sacramenti si ricevono quando si è un po' più grandi, il Battesimo verso gli otto anni, la Comunione a tredici-quattordici anni e la Cresima perfino a 18 anni! Anche il matrimonio si celebra in modo un po' differente: prima si fa una cerimonia tradizionale nella quale lo sposo, portando una dote alla famiglia della sposa, sancisce in questo modo l'uscita definitiva di quest'ultima dalla casa paterna per accoglierla nella nuova casa. Senza questo “primo” matrimonio non ci si può sposare in chiesa». Anche Evelyne e Peter si sono sposati nella maniera tradizionale e avevano iniziato la preparazione alla Cresima in vista anche del matrimonio religioso ma poi il viaggio che li ha condotti a Lampedusa ha fermato tutto. «Quando siamo arrivati in Italia eravamo un po' spaesati, senza casa, senza una stabilità economica e alla Cresima non ci pensavo più di tanto. Poi l'incontro con gli amici del Movimento di CL ha cambiato la mia vita, il mio modo di pensare le cose: sono diventata più certa del fatto che voglio seguire Gesù. Con la Cresima – conclude Evelyne – ho voluto consolidare la mia fede e ringraziare il Signore di questi doni così grandi!».

Pubblicato su Credere n. 29 del 19 Luglio 2015

martedì 12 maggio 2015

Dal Congo a Lampedusa stipati su un barcone per una vita normale

[foto Social Channel]
Evelyne e Peter hanno attraversato il mare quattro anni fa. Anche loro stipati peggio delle bestie, corpi appiccicati a corpi, impossibilitati perfino a compiere il più piccolo movimento, sopra uno di quei relitti che gli “smuggler”, i biechi trafficanti di esseri umani, si ostinano ad usare come traghetti per alimentare i loro milionari affari di morte. Ma loro ce l'hanno fatta. Evelyne e Peter sono partiti dalla Repubblica Democratica del Congo, hanno percorso quasi 7000 kilometri, risalendo praticamente mezzo continente africano, prima di imbarcarsi dalle coste libiche alla volta dell'Italia. Fa un certo effetto incontrare oggi Evelyne in una tiepida ed assolata mattina di primavera in un caffè nel centro di Monza a pochi passi dal Duomo. Suo marito Peter è al lavoro e lei può dedicarmi solo poco tempo perché poi deve andare a prendere le sue due bambine all'asilo. Una ordinarietà della vita impensabile, e probabilmente insperata, fino a poco tempo fa.

Evelyne cosa vi ha spinto a lasciare il Congo?
«Ci sono stati diversi motivi per i quali nel 2010 abbiamo deciso di partire, alcuni sono personali ma altri sono legati al fatto che lì ormai non si stava più bene e la situazione politica era molto instabile e tendeva progressivamente a degenerare. Così ci siamo imbarcati su un mercantile e abbiamo risalito il fiume Congo con l'idea, almeno all'inizio, di raggiungere un'altra provincia del nostro Paese che fosse più tranquilla, nella quale si potesse vivere e lavorare. Non è andata però come speravamo. Io sono nata e cresciuta a Kinshasa, la capitale del Congo, e questa cosa ha creato una sorta di diffidenza tra noi e la gente del posto. Inoltre la zona non era così sicura come si pensava per cui abbiamo deciso di spostarci in un altro villaggio ma le condizioni di vita erano lontanissime da quelle a cui eravamo abituati».

E quindi siete ripartiti?
«Eravamo vicini al confine con la Repubblica Centrafricana e abbiamo deciso di spostarci lì. Erano gli ultimi mesi del 2010, si stavano preparando le elezioni politiche e presidenziali del 2011 e il popolo temeva che ci sarebbe stata ancora una volta una guerra dopo le elezioni, la situazione era drammatica. Siamo ripartiti. Viaggiando un po' a piedi e un po' chiedendo passaggi ai camion diretti a Nord siamo arrivati in Ciad. Non ci eravamo mai confrontati con una cultura islamica così forte e radicata, in Congo il 97% della popolazione è cristiana, e l'impatto è stato traumatico, almeno per me. Ero obbligata ad indossare il velo e ad osservare una serie di norme a cui non ero per nulla abituata. Per mio marito era abbastanza semplice la vita ma per me era molto, molto difficile. Avevamo sentito dire che in Libia c'erano buone opportunità di lavoro per cui, ancora una volta, ci siamo messi in viaggio».

Dove avete vissuto in Libia?
«A Kufra, un villaggio della Cirenaica, la regione sud orientale della Libia. Un'oasi nel mezzo del deserto del Sahara a mille kilometri dalle città costiere. Ma almeno c'era lavoro ed una relativa tranquillità. Ci saremmo stabiliti lì definitivamente se nel 2011 non fosse scoppiata la rivoluzione».

Cosa avete fatto?
«Eravamo intrappolati in quel villaggio circondato dal deserto, l'alternativa era ritornare verso Sud, affrontando il deserto a piedi o con qualche passaggio ma era troppo pericoloso. Sapevamo che a Tripoli gli stranieri venivano rimpatriati nei loro paesi d'origine con voli giornalieri e allora ci siamo messi in viaggio verso la capitale libica. Abbiamo viaggiato sopra delle autocisterne che trasportavano carburante, le strade erano piene di bande armate pronte a razziare qualsiasi cosa ed anche noi siamo stati derubati di tutto, soldi, telefoni, ogni cosa. Arrivati a Tripoli, dopo quasi un mese di viaggio, non avevamo più niente. La situazione era degenerata moltissimo, non c'erano più aerei, le ambasciate erano tutte chiuse, ovunque regnava il caos».

È stato in quel momento che avete deciso di attraversare il mare?
«Non c'era più una via d'uscita, dopo tutto quello che avevamo passato da quando avevamo lasciato il Congo, l'unica speranza era soltanto il mare. Peter ha lavorato come imbianchino per due settimane ed è riuscito a racimolare circa 500 euro. In questo modo insieme ad un'altra coppia abbiamo contattato le persone che organizzavano le traversate. All'inizio non volevano prenderci perché chiedevano più soldi ma poi hanno accettato. Ci siamo trasferiti su una spiaggia dove abbiamo aspettato due settimane, vivendo all'addiaccio, il momento favorevole per salpare. Alla fine siamo saliti su questa barca che era così piccola e noi eravamo tantissimi. Ci hanno stipati come se fossimo delle cose. Siamo rimasti così senza poterci muovere, in balia delle onde, senza bere né mangiare per due giorni. Tanti stavano male, vomitavano gli uni addosso agli altri, io mi ricordo che ad un certo punto un gruppo di ragazzi nigeriani diceva che portavo la maledizione sulla barca e volevano buttarmi a mare. Il malessere, la paura, il digiuno forzato mi hanno fatto svenire. Mi sono risvegliata in un letto d'ospedale a Lampedusa con il medico che mi confortava dicendomi che andava tutto bene, che ero in Italia e che ero incinta di tre mesi. Mi sono messa a piangere! Ho vissuto un'esperienza che non rifarei neanche in sogno perché, al di là dei rischi, è una cosa che quando la vivi una volta non vuoi riviverla mai più anche se il desiderio di avere un futuro migliore è davvero grande. A Lampedusa siamo stati accolti, ci hanno dato un paio di scarpe, vestiti puliti, il sapone per lavarci, ci è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e il giorno dopo siamo partiti con destinazione Monza. Da quattro anni ormai viviamo qui, le mia bambine sono nate in Italia, Peter ha un lavoro... Le difficoltà da affrontare certamente non mancano ma se penso a tutto quello che abbiamo vissuto prima direi che siamo stati fortunati. Sapere che ci sarà un domani è importante».

Pubblicato su La Sicilia venerdì 8 Maggio 2015





lunedì 30 marzo 2015

Scuola-bottega da settembre a giugno. "Il 70% trova lavoro nei primi sei mesi"

Non appena si varca la soglia della “Oliver Twist”, una scuola di formazione professionale situata alla periferia di Como ma dalla quale si gode lo splendido panorama del lago, poco prima del corridoio che conduce alle aule, si rimane impressionati dalla figura di un grosso gorilla ritratto in una posa bestiale e feroce. Un po' più avanti, però, appese in un cartiglio, si leggono le celeberrime parole rivolte dall'Ulisse dantesco ai suoi compagni: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Ogni mattina i quasi 400 ragazzi che frequentano la scuola sono chiamati a scegliere se vivere “come bruti” oppure se seguire “virtute e canoscenza” con l'aiuto dei propri docenti e dei tutor. «Avere tutti i giorni quest'immagine davanti agli occhi – racconta Vasile, che frequenta il terzo anno di falegnameria ed è di origine moldava – mi ricorda che questa scuola mi aiuta a scegliere cosa voglio essere ma mi ricorda anche che ci sono delle persone che sono lì per me, per darmi una mano. E devo dire che funziona!». La storia della“Oliver Twist” si inserisce in una storia più grande che ha inizio circa trent'anni fa e racconta della conversione alla fede cristiana di due fratelli, Erasmo e Innocente Figini. Da questa conversione è fiorita l'esperienza di Cometa: cinque famiglie vivono attualmente insieme in un'unica grande casa nella quale lo spazio intimo e privato di ciascuna famiglia si coniuga perfettamente con la scelta di condividere alcuni momenti importanti della giornata, come ad esempio quello dei pasti. Cinque famiglie con 56 figli, se si considerano quelli naturali e quelli in affido, e poi 60 famiglie che nel tempo si sono coinvolte nell'esperienza dell'accoglienza molte delle quali sono diventate a loro volta affidatarie. Per molti di questi bambini, una volta cresciuti, si è posto ad un certo punto il problema di insegnare loro un mestiere. L'esperienza dell'accoglienza e dell'educazione dei figli, insieme alla presa di coscienza nei confronti di quella tragica emergenza educativa che è la dispersione scolastica si è tradotta nell'apertura di un centro di formazione professionale il cui metodo educativo è lo stesso che ha animato l'origine di Cometa: la realtà che mi sta di fronte mi pro-voca, cioè mi chiama a farmi avanti. Così nel 2009 apre i battenti la “Oliver Twist”, una sorta di “liceo artigianale”, una scuola dove al centro ci sono i ragazzi con i loro desideri e i loro progetti. Non aule ma botteghe, cioè dei luoghi in cui lo studio teorico si fonde con la pratica, dove si impara dall'esperienza e dove gli insegnanti sono dei maestri. «Il risultato che si vuole raggiungere – spiega Alessandro Mele, direttore della scuola – è quello di una conoscenza non deduttiva, di impostazione idealistica, ma induttiva. Normalmente nei centri di formazione professionale prevale il primo tipo di impostazione: ti spiego una cosa, tu me la applichi. Noi vorremmo invece che la conoscenza nascesse dal rapporto con la realtà, che ci fosse una unità della conoscenza. È un tentativo culturale il nostro quello di provare a superare l'idealismo, che ha lasciato una impronta molto forte nella scuola italiana, senza però scivolare nel pragmatismo di matrice anglosassone ma, secondo il principio del realismo, vogliamo dare forma ad una scuola che educhi la ragione a partire dal rapporto con la realtà». Sulla brochure illustrativa della scuola fa un certo effetto leggere che i corsi si svolgono da settembre a giugno secondo il calendario scolastico. La formazione professionale in Italia, in particolare nella nostra Isola, è un po' la Cenerentola del mondo dell'istruzione: considerata una scuola di serie B soffre maledettamente i bizantinismi della burocrazia, soprattutto per quel che riguarda il reperimento dei fondi necessari all'attivazione dei corsi e al loro regolare svolgimento. Il risultato è la dilatazione dei tempi tra l'approvazione dei progetti e la concreta partenza dei percorsi formativi. In questo limbo temporale però a farne maggiormente le spese sono i ragazzi stessi che si trovano a vivere lunghi, e pericolosi, periodi di inattività. La domanda allora viene spontanea: è vero quello che c'è scritto nella brochure? «La Lombardia – continua il direttore Mele – ha creato un sistema molto interessante che si è evoluto nel tempo passando dal sistema delle convenzioni a quello dei progetti per approdare infine al sistema della dote. Quest'ultimo sistema premia le scuole di maggiore qualità perché ogni famiglia ha la possibilità di spendere questa dote, messa a disposizione dalla Regione, nell'Ente di formazione accreditato che preferisce». Un sistema che sembra essere vincente vista la percentuale elevatissima di ragazzi che trovano un'occupazione alla fine del percorso formativo: «Il 70% dei nostri ragazzi – afferma ancora Mele – trova lavoro nei primi sei mesi. La ragione di questo successo dipende credo da due fattori: da una parte c'è la qualità della formazione, perché i ragazzi acquisiscono competenze che li rendono più facilmente occupabili, dall'altra parte c'è una grande collaborazione con le circa 500 imprese che lavorano insieme alla scuola attraverso la coprogettazione e gli stage che durano dalle 8 alle 12 settimane e che vedono i ragazzi protagonisti in azienda dalla mattina al pomeriggio». C'è anche un po' di Sicilia alla “Oliver Twist”: Marianna Nicotra, catanese, insieme ai suoi allievi si occupa della promozione degli eventi e Giuseppe Sinatra, siracusano, insegna matematica al corso di falegnameria. «Non è soltanto una formazione tecnica quella che noi diamo – raccontano – ma è il frutto di una educazione che abbiamo ricevuto a partire proprio dall'esperienza delle famiglie di Cometa. Ogni allievo è guardato come un figlio; la mattina esce di casa per andare in un'altra casa e questo inevitabilmente porta a modificare la didattica perché l'allievo non è più oggetto di una ripetizione passiva ma una persona da accompagnare, attraverso anche l'insegnamento di tecniche e competenze specifiche, verso il compimento della propria umanità».

Pubblicato su La Sicilia lunedì 30 Marzo 2015

mercoledì 18 febbraio 2015

La restaurazione del califfato islamico e la "profezia" di Domenico Quirico

Il 9 ottobre del 2013, un mese dopo la conclusione del suo sequestro in Siria, Domenico Quirico interveniva in un incontro pubblico nella città di Lecco. Raccontando della sua vita di prigioniero delle milizie islamiche fondamentaliste l'inviato de La Stampa parlò del disegno che avevano i jihadisti di far risorgere l'antico califfato islamico che abbracciava da Oriente a Occidente l'Asia centrale e la Spagna. In quel momento le parole Isis o al Baghdadi non avevano nessun significato e forse qualcuno avrà pensato che Quirico parlasse in maniera iperbolica. Dopo poco più di un anno gli uomini neri del califfato si affacciano sulle sponde meridionali del Mediterraneo guardando verso Roma... Vale la pena allora di rileggere alcuni stralci (non rivisti dall'autore) dell'intervento di Domenico Quirico la sera del 9 ottobre 2013 in cui l'inviato de La Stampa racconta fra le altre cose la "sua" rivoluzione siriana e il suo modo di intendere il mestiere del giornalista. 

di Domenico Quirico
«Le guerre sono spesso riassunte da una foto piuttosto che da un articolo, un reportage: il soldato russo che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag è la seconda guerra mondiale e vale più di cento libri. Io cercavo la fotografia che mi potessi portare dietro in ogni momento, in ogni luogo, in ogni istante, per non dimenticare, per continuare ad essere là [in Siria n.d.r.] anche se non ero là. C’è una mostra a Torino di un bravissimo fotografo italiano che ha vinto innumerevoli premi [Fabio Bucciarelli n.d.r.] e in questa mostra c’è una foto che è il riassunto della tragedia siriana ma non è una fotografia con dei morti. Ci sono foto tremende di uomini, donne, vecchi, bambini ridotti in polvere dalle bombe di mortaio o dai razzi dei mig. Ma non era quella la fotografia che riassumeva, per me, la tragedia che non posso e non voglio dimenticare. Si tratta invece di una fotografia scattata ad Aleppo dove si vede una vecchina che è andata a fare la spesa e cammina con il suo velo in testa un po’ curva e piegata; viene verso il fotografo in un panorama terrificante di rovine, in uno dei quartieri di Aleppo che sono stati sistematicamente e scientificamente rasi dal suolo con la gente che c’era dentro; non miliziani, non ribelli, non jiahdisti, ma gli abitanti che c’erano dentro: donne, uomini, bambini. Era gente comune che cercava di attraversare le tragedie dell’uomo e di sopravvivere. Questa gente è stata uccisa insieme alla loro città. Ebbene, questa vecchina viene avanti verso il fotografo e cammina con attorno questo cemento morto. Allora quella è la fotografia, l’immagine, il riassunto, il più bell’articolo che sia stato scritto sulla rivoluzione siriana e sulla tragedia siriana. La quotidianità del dolore, la banalità del lottare ogni giorno levandosi al mattino e andando a dormire la sera per sopravvivere. Questo per 20 milioni di uomini. A me non interessa sapere se i ribelli sono jiahdisti o no, se l’Armata siriana libera è forte o no, questo è un discorso che lascio ad altri perché non è il mio mestiere. La tragedia siriana è questa ovvietà del dolore. Allora se noi non trasformiamo quella cifra [100mila morti dall’inizio della rivoluzione n.d.r.] in un essere umano, ogni numero di quei 100mila in facce, volti, dolore, speranze, sofferenze, passioni… Allora facciamo questo: guardiamo quella fotografia e pensiamo alla vecchina che avanza verso di noi e pensiamo gli altri 100mila siriani di Aleppo, Damasco, Homs e delle altre città martoriate. Pensiamo a quello e allora capiremo e potremo cominciare a parlare, a raccontare, a pensare cosa fare per la Siria e della Siria. […] Io mi sono innamorato, uso apposta questa parola, non della rivoluzione siriana, che non è la mia rivoluzione, con cui non ho nulla da spartire; mi sono innamorato dei rivoluzionari siriani che erano dei ragazzi, che erano dei giovani. Questa è, tra le altre cose, tra le tante altre cose, come altre rivoluzioni arabe, come altre primavere arabe, una rivoluzione generazionale di giovani contro i vecchi, del giovane contro il vecchio, che erano questi regimi marci, corrotti, mafiosi, decennali: quarant’anni Gheddafi, vent’anni Ben Ali, trent’anni Mubarak. La famiglia Assad è la Siria da sempre col suo piccolo clan con cui si spartiva tutto. Allora una rivoluzione di ragazzi, che avevano lasciato le aule delle scuole medie, dell’università, insieme ai loro coetanei che erano coscritti nell’immenso esercito siriano (che si mangiava l’80% del reddito del Paese e non fa una guerra dal ’73), e hanno preso le poche armi che avevano in mano e sono insorti. Perché sono insorti? Non avevano un progetto politico, non avevano confezionato il piano per la nuova società; volevano semplicemente un mondo che fosse diverso dal mondo in cui erano obbligati a vivere da generazioni e che non sopportavano più. Ma questa è stata la prima rivoluzione siriana. Quei ragazzi non ci sono più, non ci sono più fisicamente perché sono morti nei bombardamenti contro un esercito meglio armato, equipaggiato dai russi, dai cinesi, dagli iraniani. Sono morti perché noi, cioè l’Occidente, ha voltato gli occhi dall’altra parte e ha fatto finta di non sapere cosa succedeva in quel paese. È stata una viltà, perché intervenire in Siria non era una passeggiata militare, come lo è stato invece buttare giù quel buffone senescente di Gheddafi, era un compito difficile, c’erano interessi geopolitici complessi e allora sarebbe costato caro. Abbiamo fatto finta di non sapere che quella rivoluzione, quei ragazzi, quei giovani, quei rivoluzionari, non chiamiamola ribellione ma rivoluzione siriana, quei ragazzi, che se lo sono conquistati con la vita il diritto di essere chiamati rivoluzionari, volevano una società che fosse il contrario di quella società ributtante in cui erano costretti a vivere e su cui noi abbiamo chiuso gli occhi per anni, perché con Assad abbiamo fatto dei patti, degli accordi e li ha fatti pure Israele perché gli conveniva. Allora, quei rivoluzionari sono morti annientati dall’esercito ed è venuta un’altra rivoluzione, che forse non è più una rivoluzione, è un’altra cosa. E sono venuti i jiahdisti. Perché? Chi li ha chiamati in Siria? Sono venuti perché li hanno chiamati i rivoluzionari che non ce la facevano più a battersi contro gli altri, perché non avevano le armi che noi non gli abbiamo dato. Non avevano niente, erano a mani nude contro i Mig. Li hanno chiamati perché era necessario a loro se no sarebbero stati annientati e a poco a poco da qualche decina di combattenti stranieri che c’erano ad Aleppo la prima volta che sono venuto, la terza volta che sono tornato erano diventati migliaia, gente che ha fatto altre guerre, altre insurrezioni: libici, ceceni, kirghisi: è l’internazionale islamica. Il nuovo progetto è la jihad mondiale. Noi continuiamo a chiamare l’ala radicale e islamista della rivoluzione siriana Al Qaeda: è una sciocchezza! Al Quaeda, come la immaginiamo noi, un vecchio miliardario un po’ pazzo che vive nelle caverne e dirige chissà cosa, non c’entra niente. Al Qaeda è diventata un complesso mondiale in grado di spostare combattenti perché ha un progetto politico molto preciso: la creazione del califfato islamico. La ricostituzione del califfato islamico com’era nel momento di massima espansione nel Medioevo, che andava dalla via della seta dell’Asia centrale all’Andalus, la Spagna, come la chiamano loro e che è terra d’Islam, me l’hanno ripetuto mille volte tutti quelli che ho incontrato. Questo è il progetto politico della jihad islamica che noi abbiamo rafforzato a cui noi abbiamo offerto una straordinaria occasione politica: la possibilità che per la prima volta questo progetto politico abbia uno stato nazionale. Al Qaeda, quella preistorica, non ha mai avuto uno stato: erano un gruppo di combattenti che dipendeva da altri e doveva di volta in volta mercanteggiare i suoi progetti con la gente che li ospitava. Per la prima volta il jihad ha uno stato, ha la possibilità, una volta eliminato Assad che per loro è già un capitolo chiuso, di distruggere Israele, di trasformare le ex primavere arabe in movimenti radicali ed estremisti, come in parte sta già avvenendo. Noi gli abbiamo offerto questa straordinaria occasione di avere il primo stato conficcato in uno dei cuori pulsanti del mondo, il Medio Oriente. Pensate alle frontiere della Siria: la Turchia è la porta dell’Europa, il Libano che è una specie di straordinario calderone in cui tutto può succedere, in cui vivono pressate comunità diverse, poi Israele, la Giordania e l’Iraq. Ficcato lì nasce il primo nucleo territoriale del jihad, questa è la sfida dei prossimi anni, che noi stessi, con la nostra miopia e con la nostra viltà abbiamo contribuito a creare e rafforzare. Allora il problema del radicalismo islamico che finora è stato un banalissimo, uso la parola provocatoriamente, problema di polizia e che è stato rapidamente risolto rafforzando un po’ i controlli, diventa, è già ora, un problema militare e un problema militare vuol dire che quello che non abbiamo fatto finora, cioè guardare la rivoluzione negli occhi e capire qual era la nostra rivoluzione, che noi abbiamo tradito ed ucciso, e qual era quella degli altri, dovremo affrontarla direttamente con metodi ben più dolorosi e sacrifici ben più gravi di quelli che avremmo dovuto fare se fossimo intervenuti in Siria all’inizio».


lunedì 19 gennaio 2015

Se parlare di famiglia significa essere omofobi

I bambini non sono cose che possono diventare oggetto di compravendita, l'essere maschio o femmina non è uno stereotipo culturale ma una realtà (anche) biologicamente iscritta in noi stessi fin dai primi momenti del concepimento, affermare la diversità non è discriminazione ma pone le basi della convivenza reciproca, la famiglia, che è il motore e l'ancora di salvezza dell'Italia, oggi è bistrattata e relegata in un angolo dalla politica, il vero progresso è permettere alle lavoratrici di essere madri e non il contrario. Questo un po' il nocciolo di un convegno sulla famiglia svoltosi a Milano all'auditorium Testori nella sede della regione Lombardia. Un convegno, questo sulla famiglia, bollato dai grossi media sin da subito come convegno anti-gay nel quale sarebbero state sostenute tesi “omofobe ed oscurantiste” secondo cui gli omosessuali andrebbero curati perché malati. A nulla sono valse nei giorni scorsi le proteste e le dichiarazioni pubbliche dei relatori i quali hanno più volte ribadito di non aver mai affermato nulla del genere e che il loro unico interesse era di parlare della famiglia. La famiglia che, come ha ricordato il sociologo Massimo Introvigne, uno dei relatori, è «il motore del mondo e della storia. L'Italia – ha proseguito Introvigne – tiene grazie alla famiglia: al circolo vizioso del debito pubblico si contrappone il circolo virtuoso del credito privato. L'oro del XXI secolo non è né il petrolio, né il metallo giallo ma la famiglia». Mario Adinolfi, renziano della prima ora, fondatore del PD e direttore del quotidiano La Croce, ha denunciato gli effetti nefasti della “neolingua” attraverso la quale, non accettando più il fatto che ogni essere umano ha dei limiti che la natura stessa gli impone, si vuol far passare come cosa normale e legittima la “stepchild adoption”, secondo cui un bambino e una donna possono diventare cose, oggetti di vero e proprio commercio da parte di una coppia omosessuale e non. «Una norma – ha detto Adinolfi – come quella che adesso è in discussione al Senato, che consenta di avere il “paramatrimonio” e dunque la stepchild adoption, un vero e proprio meccanismo di compravendita di un bambino per me è inaccettabile». Ed ha ribadito che le persone non sono cose e che i bambini, che sono i soggetti più deboli, hanno diritto ad avere una mamma e un papà. «È un'affermazione banale questa – ha concluso Adinolfi – eppure siamo qui a doverla ribadire e a doverci difendere!». Costanza Miriano, giornalista e scrittrice ha rivendicato orgogliosamente di essere sessista nel senso, ha spiegato, «che le differenze sono una ricchezza e non un limite e che siamo cresciuti con un'idea distorta rispetto a quella che è la realtà. È falsa infatti la visione secondo cui la donna per realizzarsi deve fare carriera e poi dopo pensare alla maternità. Occorrerebbe invece permettere alle lavoratrici di poter essere madri anche se oggi purtroppo le famiglie non sono aiutate in nessun modo, anzi sembra che lo Stato oggi tuteli maggiormente le convivenze». All'esterno intanto, in un clima surreale, decine e decine di poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa presidiavano la zona per evitare disordini e incidenti. Ritornano alla mente le celeberrime parole del grande scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton quando più di cento anni fa scriveva che «fuochi verranno attizzati per dimostrare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate».

Pubblicato su La Sicilia lunedì 19 Gennaio 2015

mercoledì 7 gennaio 2015

Ciantia, il medico siciliano che ora "cura" i Paesi più poveri. "Tutto è partito in Uganda".

Dall'Uganda all'Expo 2015 di Milano; dalla cooperazione internazionale con una ONG italiana alla gestione di alcuni settori chiave dell'Esposizione universale, l'evento che, numeri alla mano, si preannuncia come uno dei più importanti a livello planetario in questo primo scorcio di XXI secolo. La storia di Filippo Ciantia, mamma catanese e papà di Piazza Armerina, si snoda lungo una fitta trama di incontri e di rapporti che lo hanno condotto, con moglie e figli al seguito, prima nel paese africano e poi, in maniera del tutto inaspettata, l'hanno catapultato a Milano per occuparsi dell'Esposizione universale. Abbiamo incontrato Ciantia nel quartier generale di Expo, alla periferia nord occidentale del capoluogo lombardo, nei pressi dell'area che tra qualche mese verrà visitata da milioni di persone di tutto il mondo.

Dottor Ciantia ci racconti la sua esperienza in Africa.
«Io sono medico di formazione, ho lavorato per ventinove anni in Uganda, anche se poi nel mio lavoro ho visitato abbastanza regolarmente i paesi vicini, Ruanda, Burundi, Sud Sudan, Est Congo. Ho iniziato a lavorare poi come medico nel nord dell'Uganda, in una zona molto povera e con conflitti molto importanti che sono durati a lungo. Per questo motivo, per motivi familiari e di sicurezza per me, mia moglie ed i miei figli, abbiamo dovuto spostarci a Kampala, la capitale, e da quando mi sono trasferito lì nel 1989 mi sono occupato maggiormente di programmi di cooperazione e di gestione pur mantenendo un forte legame con il settore socio sanitario».

Com'è successo che venisse chiamato a lavorare per l'Expo?
«In maniera piuttosto singolare nell'agosto 2008 ricevo una telefonata dall'allora sindaco di Milano Letizia Moratti che stranamente mi chiede se ero disponibile a lavorare alla preparazione dell'Esposizione universale occupandomi nello specifico dei paesi africani e in via di sviluppo. Successivamente si è svelato “l'arcano”, il motivo cioè per cui il sindaco fosse arrivato proprio a me. Nel periodo in cui sosteneva la candidatura di Milano come sede ospitante dell'Expo, la Moratti aveva incontrato il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni il quale le aveva parlato molto bene di un'associazione, di nome Avsi, per la quale lavoravo e che in quel periodo dirigevo in Uganda. Moratti è rimasta molto colpita perché era la prima volta che una persona, e in special modo un presidente, le parlava così di un'organizzazione umanitaria italiana. Il Sindaco ha deciso quindi di chiamare gli uffici dell'Avsi lì in Uganda e mi ha proposto di venire a lavorare per l'Expo. Così, senza quasi sapere cosa fosse, sono arrivato nella Società organizzatrice nel luglio del 2009 e da allora mi sono interessato ai progetti di cooperazione dei Paesi in via di sviluppo occupandomi soprattutto del progetto di aiuto ai Paesi più poveri che non possono permettersi di costruire un padiglione o non possono allestirlo. Un programma di aiuto che è divenuto tradizionale da un po' di anni nelle esposizioni universali».

Lei è anche il responsabile dei cosiddetti “cluster” tematici. Può spiegare meglio di cosa si tratta?
«Nel 2009 si discuteva il piano generale per l'Expo 2015 e alla fine è emersa quella che secondo me è un'idea geniale: riproporre la pianta del “castrum”, l'accampamento romano, che ha dato l'impronta all'assetto viario di tante città italiane: due grandi assi perpendicolari, il cardo e il decumano, una grande via molto lunga, che ospiterà nei “cluster” i Paesi del mondo, e un'altra perpendicolare più corta, che ospiterà le regioni italiane. Si poneva a questo punto la questione di cosa poter offrire ai Paesi oltre al modello classico, stile fiera campionaria, dei lotti di terreno ceduti per la costruzione del proprio padiglione. È emersa pian piano l'idea di raggruppare i Paesi intorno ad un tema particolare. E qui l'altra grande intuizione è stata quella di puntare sul tema dell'Expo, “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, cioè sull'agricoltura, sulla nutrizione e sulla sostenibilità. Quindi anche il raggruppamento dei vari Paesi del mondo doveva avvenire secondo criteri tematici attinenti al grande tema. Siamo partiti con una quindicina di proposte ma alla fine dialogando con i Paesi e ricevendo anche le loro proposte, siamo arrivati ad individuare nove “cluster” tematici: spezie, riso, isole mare e cibo, frutta e legumi, caffè, cioccolato, cereali e tuberi, zone aride ed infine bio Mediterraneo. È nata così l'idea di realizzare un villaggio tematico, un villaggio nel quale ogni Paese avrà il suo spazio espositivo “privato” ma che avrà anche delle aree comuni, pubbliche, ristoranti, mostre, mercati, aree di spettacolo e di eventi. Il cluster sarà un villaggio vivo».

Il bio Mediterraneo è forse il “cluster” che, come siciliani, ci tocca più da vicino. Può raccontare com'è nata quest'idea?
«Il Commissario generale libanese Simon Jabbour, ci ha scritto un giorno dicendoci che non si poteva non fare un “cluster” dedicato al Mediterraneo. Dedicato però al bio Mediterraneo, ha sottolineato Jabbour, perché secondo lui il Mediterraneo va oltre una questione meramente geografica. Noi invece volevamo evitare di realizzare padiglioni globali e geografici cercando di farli invece più tematici ed individualizzati e per questo avevamo deciso di non trattare il Mediterraneo in quanto entità geografica. Jabbour ci ha invece mostrato come il Mediterraneo sia in realtà un messaggio, un incontro di civiltà, di cultura, di religioni, di continenti, quindi di ecosistemi, e soprattutto è il padre della dieta Mediterranea, un patrimonio dell'umanità. E la Sicilia ha deciso di interessarsi al bio Mediterraneo proprio perché è al centro di questo mare, un mare d'incontro e di dialogo. E poi, se siamo sinceri, la Sicilia è sempre stata un luogo d'incontro, un melting pot che passando dai Fenici, che portarono lì l'olivo dal Libano, arriva agli Arabi, ai Normanni... L'idea di questa Esposizione universale è proprio quella di promuovere l'agricoltura, la nutrizione sana, ma che nasce da un territorio ben preciso, un territorio che è portatore di cultura, di valori, di bellezza e di armonia. E nel “cluster” del Mediterraneo la Sicilia è davvero un simbolo!».

Pubblicato su La Sicilia sabato 29 Dicembre 2014