Sabato 27 agosto, il Meeting di Rimini sta per chiudere i battenti. Padre Aldo Trento,
missionario in Paraguay dal 1989, prima dell’orario di apertura “ufficiale”
della fiera ha incontrato un gruppetto di giovani volontari all’interno dei
padiglioni. Svariate sono state le domande che i ragazzi hanno posto al
sacerdote veneto, soprattutto su due questioni che, evidentemente, erano
avvertite come le più urgenti. La prima. L’uomo è una perenne domanda di senso;
si muove nella realtà domandando, cercando, lottando per affermare un
significato senza il quale la vita diventerebbe insipida, incerta, vana. Allora,
nel meeting della “immensa certezza”, come permanere in un atteggiamento di
domanda, quando la realtà sembra sorda al nostro interrogare e avara o finanche
muta nelle risposte?
«Occorre
vivere intensamente la realtà, ha risposto padre Trento, e affidare la vita a
qualcuno che riconosci autorevole per te. Da solo altrimenti non ce la fai. Mi
vengono in mente quelli che ho visto ogni giorno venendo qui in fiera, sotto il
sole, a fare i parcheggiatori; sono contenti, li ho visti! Ma come fanno? Sono
forse degli stupidi? No! E’ che si sono fidati di quello che è stato detto loro
e hanno riconosciuto che c’è una positività per la loro vita anche facendo
parcheggiare le macchine».
La
seconda domanda si intreccia giocoforza con la prima: quando la realtà è dura
si fa fatica. Ma perché?
«Bisogna
soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina» risponde il
missionario. Potrebbe essere un bell’aforisma, sciorinato ad effetto per
colpire la platea. Ma chi ascolta conosce bene la storia di padre Aldo e sa che
dietro ogni parola utilizzata c’è tutta una vita; le sue parole non sono
semplici suoni, flatus vocis, ma raccontano un’esperienza.
Per
questo motivo nessuno fiata e tutti aspettano che il sacerdote riprenda a
parlare.
«Al
culmine del mio esaurimento nervoso, quando la depressione mi avvinghiava già
nella sua morsa, ricorda, l’unico che ha avuto il coraggio di abbracciarmi,
quando tutti volevano spedirmi in clinica psichiatrica, è stato Giussani, che
mi ha portato con sé quella famosa estate del 1988 (o ’89 non ricordo… ndr). Il suo però è stato un abbraccio
“ontologico”, non appena l’abbraccio di un amico all’amico o del moroso alla
morosa; è stato l’abbraccio, posso dirlo adesso, del Mistero alla mia vita».
«Quando
sono arrivato in Paraguay, -perché, sapete, Giussani, alla fine di quell’estate
lì mi disse: “Ora sono sicuro di te, puoi partire in missione!”- non c’era
niente nella mia vita che fosse a posto, ed ero incazzato con Dio e la Madonna. Non che avessi dei
dubbi, no, però incazzato lo ero, e tanto.
Tra
le tante parole che mi sentivo dire ce n’era una in particolare che mi faceva
girare le balle: attesa. Ci sono voluti dodici anni, anni nei quali non ho
letteralmente chiuso occhio, rasentando la follia, per comprendere che l’attesa
è il tempo di Dio. Non sarebbe spiegabile altrimenti quello che accade ad
Asuncìon al San Rafael, oppure ai miei bambini della “casita”; bambini malati,
abusati, stuprati, feriti nella carne e nello spirito, che non parlano, non
sorridono…
Io
vivo quotidianamente nella sofferenza, ho a che fare ogni giorno con il dolore
e la morte, a volte è quasi impossibile sopportarlo, ti lacera dentro. Eppure
il dolore e la fatica sono la condizione perché la vita, la verità non diventino
un discorso, una teoria.
Ma
noi abbiamo paura di soffrire. Perché abbiamo paura di soffrire? Perché non
vogliamo amare, perché più ami più soffri non c’è niente da fare. E più cresci
nel tuo rapporto con Cristo, più impari la sua sensibilità. Quando Dio ti
chiede di essere testimone di Lui nel mondo, ti fa entrare nel Getsemani: Gesù
risorto si mostra con le sue piaghe, vi ricordate dell’episodio di Tommaso?
Si
può essere “funzionari” di Cristo, ma se Lui non è la ragione della vita tu non
soffri. Voler eliminare il dolore significa voler eliminare l’io, la
possibilità di dire veramente io.
Ad
un sacerdote che si è fatto mandare in missione fuori dall’Italia perché si era
innamorato di una donna e volevo dimenticarla ho detto: Cretino! Perché vuoi
dimenticare? Per eliminare la ferita e diventare un borghese! Devi imparare ad
amare da uomo e lei, questa donna, c’è per farti amare ancora di più la tua
vocazione sacerdotale e Cristo. Cari amici, in tutto quello che vi ho detto c’è
una cosa fondamentale senza la quale sarebbe impossibile reggere: occorrono
degli amici che ci abbraccino, perché loro sono il segno più potente della
tenerezza di Dio per me. Dio, che prima ancora che mia madre mi concepisse ha
pronunciato il mio nome, mi raggiunge ora grazie al volto di Carròn, Cleuza e
Marcos. La malattia, la disperazione, si sconfigge solo se c’è qualcuno che ti
abbraccia».
Padre
Aldo finisce di parlare, posa il microfono e si asciuga la fronte madida di
sudore con un fazzoletto. Nessuno si muove: sono tutti con gli occhi sgranati
di fronte a lui. All’improvviso risuona la canzone che annuncia l’apertura dei
padiglioni della fiera al pubblico e che ha accompagnato i visitatori per tutta
la settimana; “Al final de este viaje en la vida” che in una strofa recita:
“quedamos los que puedan sonreìr en medio de la muerte, en plena luz”: siamo quelli che possono sorridere in mezzo
alla morte, in pieno giorno. Udire queste parole adesso dopo aver ascoltato
la testimonianza di padre Aldo sembra l’avverarsi di una profezia: davvero
l’esistenza è una immensa certezza!