Il 9 ottobre del 2013, un mese dopo la conclusione del suo sequestro in Siria, Domenico Quirico interveniva in un incontro pubblico nella città di Lecco. Raccontando della sua vita di prigioniero delle milizie islamiche fondamentaliste l'inviato de La Stampa parlò del disegno che avevano i jihadisti di far risorgere l'antico califfato islamico che abbracciava da Oriente a Occidente l'Asia centrale e la Spagna. In quel momento le parole Isis o al Baghdadi non avevano nessun significato e forse qualcuno avrà pensato che Quirico parlasse in maniera iperbolica. Dopo poco più di un anno gli uomini neri del califfato si affacciano sulle sponde meridionali del Mediterraneo guardando verso Roma... Vale la pena allora di rileggere alcuni stralci (non rivisti dall'autore) dell'intervento di Domenico Quirico la sera del 9 ottobre 2013 in cui l'inviato de La Stampa racconta fra le altre cose la "sua" rivoluzione siriana e il suo modo di intendere il mestiere del giornalista.
di Domenico Quirico
«Le
guerre sono spesso riassunte da una foto piuttosto che da un
articolo, un reportage: il soldato russo che pianta la bandiera
sovietica sul Reichstag è
la seconda guerra mondiale e vale più di cento libri. Io cercavo la
fotografia che mi potessi portare dietro in ogni momento, in ogni
luogo, in ogni istante, per non dimenticare, per continuare ad essere
là [in Siria n.d.r.]
anche se non ero là. C’è una mostra a Torino di un bravissimo
fotografo italiano che ha vinto innumerevoli premi [Fabio Bucciarelli
n.d.r.]
e in questa mostra c’è una foto che è il riassunto della
tragedia siriana ma non è una fotografia con dei morti. Ci sono foto
tremende di uomini, donne, vecchi, bambini ridotti in polvere dalle
bombe di mortaio o dai razzi dei mig. Ma non era quella la fotografia
che riassumeva, per me, la tragedia che non posso e non voglio
dimenticare. Si tratta invece di una fotografia scattata ad Aleppo
dove si vede una vecchina che è andata a fare la spesa e cammina con
il suo velo in testa un po’ curva e piegata; viene verso il
fotografo in un panorama terrificante di rovine, in uno dei quartieri
di Aleppo che sono stati sistematicamente e scientificamente rasi dal
suolo con la gente che c’era dentro; non miliziani, non ribelli,
non jiahdisti, ma gli abitanti che c’erano dentro: donne, uomini,
bambini. Era gente comune che cercava di attraversare le tragedie
dell’uomo e di sopravvivere. Questa gente è stata uccisa insieme
alla loro città. Ebbene, questa vecchina viene avanti verso il
fotografo e cammina con attorno questo cemento morto. Allora quella è
la fotografia, l’immagine, il riassunto, il più bell’articolo
che sia stato scritto sulla rivoluzione siriana e sulla tragedia
siriana.
La quotidianità del dolore, la banalità del lottare ogni giorno
levandosi al mattino e andando a dormire la sera per sopravvivere.
Questo per 20 milioni di uomini. A me non interessa sapere se i
ribelli sono jiahdisti o no, se l’Armata siriana libera è forte o
no, questo è un discorso che lascio ad altri perché non è il mio
mestiere. La tragedia siriana è questa ovvietà del dolore. Allora
se noi non trasformiamo quella cifra [100mila morti dall’inizio
della rivoluzione n.d.r.]
in un essere umano, ogni numero di quei 100mila in facce, volti,
dolore, speranze, sofferenze, passioni… Allora facciamo questo:
guardiamo quella fotografia e pensiamo alla vecchina che avanza verso
di noi e pensiamo gli altri 100mila siriani di Aleppo, Damasco, Homs
e delle altre città martoriate. Pensiamo a quello e allora capiremo
e potremo cominciare a parlare, a raccontare, a pensare cosa fare per
la Siria e della Siria. […] Io mi sono innamorato, uso apposta
questa parola, non della rivoluzione siriana, che non è la mia
rivoluzione, con cui non ho nulla da spartire; mi sono innamorato dei
rivoluzionari siriani che erano dei ragazzi, che erano dei giovani.
Questa è, tra le altre cose, tra le tante altre cose, come altre
rivoluzioni arabe, come altre primavere arabe, una rivoluzione
generazionale di giovani contro i vecchi, del giovane contro il
vecchio, che erano questi regimi marci, corrotti, mafiosi, decennali:
quarant’anni Gheddafi, vent’anni Ben Ali, trent’anni Mubarak.
La famiglia Assad è la Siria da sempre col suo piccolo clan con cui
si spartiva tutto. Allora una rivoluzione di ragazzi, che avevano
lasciato le aule delle scuole medie, dell’università, insieme ai
loro coetanei che erano coscritti nell’immenso esercito siriano
(che si mangiava l’80% del reddito del Paese e non fa una guerra
dal ’73), e hanno preso le poche armi che avevano in mano e sono
insorti. Perché sono insorti? Non avevano un progetto politico, non
avevano confezionato il piano per la nuova società; volevano
semplicemente un mondo che fosse diverso dal mondo in cui erano
obbligati a vivere da generazioni e che non sopportavano più. Ma
questa è stata la prima rivoluzione siriana. Quei ragazzi non ci
sono più, non ci sono più fisicamente perché sono morti nei
bombardamenti contro un esercito meglio armato, equipaggiato dai
russi, dai cinesi, dagli iraniani. Sono morti perché noi, cioè
l’Occidente, ha voltato gli occhi dall’altra parte e ha fatto
finta di non sapere cosa succedeva in quel paese. È stata una viltà,
perché intervenire in Siria non era una passeggiata militare, come
lo è stato invece buttare giù quel buffone senescente di Gheddafi,
era un compito difficile, c’erano interessi geopolitici complessi e
allora sarebbe costato caro. Abbiamo fatto finta di non sapere che
quella rivoluzione, quei ragazzi, quei giovani, quei rivoluzionari,
non chiamiamola ribellione ma rivoluzione siriana, quei ragazzi, che
se lo sono conquistati con la vita il diritto di essere chiamati
rivoluzionari, volevano una società che fosse il contrario di quella
società ributtante in cui erano costretti a vivere e su cui noi
abbiamo chiuso gli occhi per anni, perché con Assad abbiamo fatto
dei patti, degli accordi e li ha fatti pure Israele perché gli
conveniva. Allora, quei rivoluzionari sono morti annientati
dall’esercito ed è venuta un’altra rivoluzione, che forse non è
più una rivoluzione, è un’altra cosa. E sono venuti i jiahdisti.
Perché? Chi li ha chiamati in Siria? Sono venuti perché li hanno
chiamati i rivoluzionari che non ce la facevano più a battersi
contro gli altri, perché non avevano le armi che noi non gli abbiamo
dato. Non avevano niente, erano a mani nude contro i Mig. Li hanno
chiamati perché era necessario a loro se no sarebbero stati
annientati e a poco a poco da qualche decina di combattenti stranieri
che c’erano ad Aleppo la prima volta che sono venuto, la terza
volta che sono tornato erano diventati migliaia, gente che ha fatto
altre guerre, altre insurrezioni: libici, ceceni, kirghisi: è
l’internazionale islamica. Il nuovo progetto è la jihad mondiale.
Noi continuiamo a chiamare l’ala radicale e islamista della
rivoluzione siriana Al Qaeda: è una sciocchezza! Al Quaeda, come la
immaginiamo noi, un vecchio miliardario un po’ pazzo che vive nelle
caverne e dirige chissà cosa, non c’entra niente. Al Qaeda è
diventata un complesso mondiale in grado di spostare combattenti
perché ha un progetto politico molto preciso: la creazione del
califfato islamico. La ricostituzione del califfato islamico com’era
nel momento di massima espansione nel Medioevo, che andava dalla via
della seta dell’Asia centrale all’Andalus, la Spagna, come la
chiamano loro e che è terra d’Islam, me l’hanno ripetuto mille
volte tutti quelli che ho incontrato. Questo è il progetto politico
della jihad islamica che noi abbiamo rafforzato a cui noi abbiamo
offerto una straordinaria occasione politica: la possibilità che per
la prima volta questo progetto politico abbia uno stato nazionale. Al
Qaeda, quella preistorica, non ha mai avuto uno stato: erano un
gruppo di combattenti che dipendeva da altri e doveva di volta in
volta mercanteggiare i suoi progetti con la gente che li ospitava.
Per la prima volta il jihad ha uno stato, ha la possibilità, una
volta eliminato Assad che per loro è già un capitolo chiuso, di
distruggere Israele, di trasformare le ex primavere arabe in
movimenti radicali ed estremisti, come in parte sta già avvenendo.
Noi gli abbiamo offerto questa straordinaria occasione di avere il
primo stato conficcato in uno dei cuori pulsanti del mondo, il Medio
Oriente. Pensate alle frontiere della Siria: la Turchia è la porta
dell’Europa, il Libano che è una specie di straordinario calderone
in cui tutto può succedere, in cui vivono pressate comunità
diverse, poi Israele, la Giordania e l’Iraq. Ficcato lì nasce il
primo nucleo territoriale del jihad, questa è la sfida dei prossimi
anni, che noi stessi, con la nostra miopia e con la nostra viltà
abbiamo contribuito a creare e rafforzare. Allora il problema del
radicalismo islamico che finora è stato un banalissimo, uso la
parola provocatoriamente, problema di polizia e che è stato
rapidamente risolto rafforzando un po’ i controlli, diventa, è già
ora, un problema militare e un problema militare vuol dire che quello
che non abbiamo fatto finora, cioè guardare la rivoluzione negli
occhi e capire qual era la nostra rivoluzione, che noi abbiamo
tradito ed ucciso, e qual era quella degli altri, dovremo affrontarla
direttamente con metodi ben più dolorosi e sacrifici ben più gravi
di quelli che avremmo dovuto fare se fossimo intervenuti in Siria
all’inizio».