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mercoledì 18 febbraio 2015

La restaurazione del califfato islamico e la "profezia" di Domenico Quirico

Il 9 ottobre del 2013, un mese dopo la conclusione del suo sequestro in Siria, Domenico Quirico interveniva in un incontro pubblico nella città di Lecco. Raccontando della sua vita di prigioniero delle milizie islamiche fondamentaliste l'inviato de La Stampa parlò del disegno che avevano i jihadisti di far risorgere l'antico califfato islamico che abbracciava da Oriente a Occidente l'Asia centrale e la Spagna. In quel momento le parole Isis o al Baghdadi non avevano nessun significato e forse qualcuno avrà pensato che Quirico parlasse in maniera iperbolica. Dopo poco più di un anno gli uomini neri del califfato si affacciano sulle sponde meridionali del Mediterraneo guardando verso Roma... Vale la pena allora di rileggere alcuni stralci (non rivisti dall'autore) dell'intervento di Domenico Quirico la sera del 9 ottobre 2013 in cui l'inviato de La Stampa racconta fra le altre cose la "sua" rivoluzione siriana e il suo modo di intendere il mestiere del giornalista. 

di Domenico Quirico
«Le guerre sono spesso riassunte da una foto piuttosto che da un articolo, un reportage: il soldato russo che pianta la bandiera sovietica sul Reichstag è la seconda guerra mondiale e vale più di cento libri. Io cercavo la fotografia che mi potessi portare dietro in ogni momento, in ogni luogo, in ogni istante, per non dimenticare, per continuare ad essere là [in Siria n.d.r.] anche se non ero là. C’è una mostra a Torino di un bravissimo fotografo italiano che ha vinto innumerevoli premi [Fabio Bucciarelli n.d.r.] e in questa mostra c’è una foto che è il riassunto della tragedia siriana ma non è una fotografia con dei morti. Ci sono foto tremende di uomini, donne, vecchi, bambini ridotti in polvere dalle bombe di mortaio o dai razzi dei mig. Ma non era quella la fotografia che riassumeva, per me, la tragedia che non posso e non voglio dimenticare. Si tratta invece di una fotografia scattata ad Aleppo dove si vede una vecchina che è andata a fare la spesa e cammina con il suo velo in testa un po’ curva e piegata; viene verso il fotografo in un panorama terrificante di rovine, in uno dei quartieri di Aleppo che sono stati sistematicamente e scientificamente rasi dal suolo con la gente che c’era dentro; non miliziani, non ribelli, non jiahdisti, ma gli abitanti che c’erano dentro: donne, uomini, bambini. Era gente comune che cercava di attraversare le tragedie dell’uomo e di sopravvivere. Questa gente è stata uccisa insieme alla loro città. Ebbene, questa vecchina viene avanti verso il fotografo e cammina con attorno questo cemento morto. Allora quella è la fotografia, l’immagine, il riassunto, il più bell’articolo che sia stato scritto sulla rivoluzione siriana e sulla tragedia siriana. La quotidianità del dolore, la banalità del lottare ogni giorno levandosi al mattino e andando a dormire la sera per sopravvivere. Questo per 20 milioni di uomini. A me non interessa sapere se i ribelli sono jiahdisti o no, se l’Armata siriana libera è forte o no, questo è un discorso che lascio ad altri perché non è il mio mestiere. La tragedia siriana è questa ovvietà del dolore. Allora se noi non trasformiamo quella cifra [100mila morti dall’inizio della rivoluzione n.d.r.] in un essere umano, ogni numero di quei 100mila in facce, volti, dolore, speranze, sofferenze, passioni… Allora facciamo questo: guardiamo quella fotografia e pensiamo alla vecchina che avanza verso di noi e pensiamo gli altri 100mila siriani di Aleppo, Damasco, Homs e delle altre città martoriate. Pensiamo a quello e allora capiremo e potremo cominciare a parlare, a raccontare, a pensare cosa fare per la Siria e della Siria. […] Io mi sono innamorato, uso apposta questa parola, non della rivoluzione siriana, che non è la mia rivoluzione, con cui non ho nulla da spartire; mi sono innamorato dei rivoluzionari siriani che erano dei ragazzi, che erano dei giovani. Questa è, tra le altre cose, tra le tante altre cose, come altre rivoluzioni arabe, come altre primavere arabe, una rivoluzione generazionale di giovani contro i vecchi, del giovane contro il vecchio, che erano questi regimi marci, corrotti, mafiosi, decennali: quarant’anni Gheddafi, vent’anni Ben Ali, trent’anni Mubarak. La famiglia Assad è la Siria da sempre col suo piccolo clan con cui si spartiva tutto. Allora una rivoluzione di ragazzi, che avevano lasciato le aule delle scuole medie, dell’università, insieme ai loro coetanei che erano coscritti nell’immenso esercito siriano (che si mangiava l’80% del reddito del Paese e non fa una guerra dal ’73), e hanno preso le poche armi che avevano in mano e sono insorti. Perché sono insorti? Non avevano un progetto politico, non avevano confezionato il piano per la nuova società; volevano semplicemente un mondo che fosse diverso dal mondo in cui erano obbligati a vivere da generazioni e che non sopportavano più. Ma questa è stata la prima rivoluzione siriana. Quei ragazzi non ci sono più, non ci sono più fisicamente perché sono morti nei bombardamenti contro un esercito meglio armato, equipaggiato dai russi, dai cinesi, dagli iraniani. Sono morti perché noi, cioè l’Occidente, ha voltato gli occhi dall’altra parte e ha fatto finta di non sapere cosa succedeva in quel paese. È stata una viltà, perché intervenire in Siria non era una passeggiata militare, come lo è stato invece buttare giù quel buffone senescente di Gheddafi, era un compito difficile, c’erano interessi geopolitici complessi e allora sarebbe costato caro. Abbiamo fatto finta di non sapere che quella rivoluzione, quei ragazzi, quei giovani, quei rivoluzionari, non chiamiamola ribellione ma rivoluzione siriana, quei ragazzi, che se lo sono conquistati con la vita il diritto di essere chiamati rivoluzionari, volevano una società che fosse il contrario di quella società ributtante in cui erano costretti a vivere e su cui noi abbiamo chiuso gli occhi per anni, perché con Assad abbiamo fatto dei patti, degli accordi e li ha fatti pure Israele perché gli conveniva. Allora, quei rivoluzionari sono morti annientati dall’esercito ed è venuta un’altra rivoluzione, che forse non è più una rivoluzione, è un’altra cosa. E sono venuti i jiahdisti. Perché? Chi li ha chiamati in Siria? Sono venuti perché li hanno chiamati i rivoluzionari che non ce la facevano più a battersi contro gli altri, perché non avevano le armi che noi non gli abbiamo dato. Non avevano niente, erano a mani nude contro i Mig. Li hanno chiamati perché era necessario a loro se no sarebbero stati annientati e a poco a poco da qualche decina di combattenti stranieri che c’erano ad Aleppo la prima volta che sono venuto, la terza volta che sono tornato erano diventati migliaia, gente che ha fatto altre guerre, altre insurrezioni: libici, ceceni, kirghisi: è l’internazionale islamica. Il nuovo progetto è la jihad mondiale. Noi continuiamo a chiamare l’ala radicale e islamista della rivoluzione siriana Al Qaeda: è una sciocchezza! Al Quaeda, come la immaginiamo noi, un vecchio miliardario un po’ pazzo che vive nelle caverne e dirige chissà cosa, non c’entra niente. Al Qaeda è diventata un complesso mondiale in grado di spostare combattenti perché ha un progetto politico molto preciso: la creazione del califfato islamico. La ricostituzione del califfato islamico com’era nel momento di massima espansione nel Medioevo, che andava dalla via della seta dell’Asia centrale all’Andalus, la Spagna, come la chiamano loro e che è terra d’Islam, me l’hanno ripetuto mille volte tutti quelli che ho incontrato. Questo è il progetto politico della jihad islamica che noi abbiamo rafforzato a cui noi abbiamo offerto una straordinaria occasione politica: la possibilità che per la prima volta questo progetto politico abbia uno stato nazionale. Al Qaeda, quella preistorica, non ha mai avuto uno stato: erano un gruppo di combattenti che dipendeva da altri e doveva di volta in volta mercanteggiare i suoi progetti con la gente che li ospitava. Per la prima volta il jihad ha uno stato, ha la possibilità, una volta eliminato Assad che per loro è già un capitolo chiuso, di distruggere Israele, di trasformare le ex primavere arabe in movimenti radicali ed estremisti, come in parte sta già avvenendo. Noi gli abbiamo offerto questa straordinaria occasione di avere il primo stato conficcato in uno dei cuori pulsanti del mondo, il Medio Oriente. Pensate alle frontiere della Siria: la Turchia è la porta dell’Europa, il Libano che è una specie di straordinario calderone in cui tutto può succedere, in cui vivono pressate comunità diverse, poi Israele, la Giordania e l’Iraq. Ficcato lì nasce il primo nucleo territoriale del jihad, questa è la sfida dei prossimi anni, che noi stessi, con la nostra miopia e con la nostra viltà abbiamo contribuito a creare e rafforzare. Allora il problema del radicalismo islamico che finora è stato un banalissimo, uso la parola provocatoriamente, problema di polizia e che è stato rapidamente risolto rafforzando un po’ i controlli, diventa, è già ora, un problema militare e un problema militare vuol dire che quello che non abbiamo fatto finora, cioè guardare la rivoluzione negli occhi e capire qual era la nostra rivoluzione, che noi abbiamo tradito ed ucciso, e qual era quella degli altri, dovremo affrontarla direttamente con metodi ben più dolorosi e sacrifici ben più gravi di quelli che avremmo dovuto fare se fossimo intervenuti in Siria all’inizio».