Powered By Blogger

martedì 28 agosto 2012

"Lo sguardo che mi fa vivere"


“Lei ha la Sla e io mi fermo qua”. È facile immaginare lo stato d’animo di un uomo a cui viene annunciata in modo così brutale quella che è praticamente una sentenza di morte; se quest’uomo poi è anche un medico si può capire come la notizia assuma il tono quasi grottesco della beffa. Ma è proprio questa frase che Mario Melazzini, oncologo di successo e direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, si è sentito rivolgere nel gennaio 2003 quando apprende di essere affetto dalla sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa che compromette lentamente tutte le funzioni motorie, dall’uso degli arti superiori e inferiori, fino alla deglutizione, fonazione e respirazione. La prognosi è infausta: circa l’80% dei malati di Sla muoiono entro 3-5 anni dall’insorgere della malattia. «Quando in ospedale ho iniziato a trascinare il piede sinistro sul linoleum del corridoio – racconta Melazzini – pensavo di essere stressato e per “scaricarmi” un po’ ho pensato di inforcare la bici, il mio ansiolitico. Ma mi accorgevo di stancarmi prestissimo e certe volte mi addormentavo a tavola! Ho ritardato a sottopormi a degli esami forse per una paura inconscia, ma alla fine, con il sopraggiungere dei crampi ho dovuto accettare il consiglio di un amico neurologo di prenotare una biopsia all’istituto Besta di Milano: ero diventato un paziente». Melazzini per la prima volta si trova dall’altra parte della barricata; lunghe code agli sportelli, liste d’attesa per gli esami e, quel che è peggio, sperimenta tutta l’indifferenza del personale medico-sanitario. Un lungo calvario, in cui i problemi fisici aumentano progressivamente, culminato quel 17 gennaio di nove anni fa quando gli viene comunicata l’esatta natura del male: sclerosi laterale amiotrofica. «Mi trovavo a Padova quando ho appreso la diagnosi – dice ancora Melazzini – ed ero insieme a mia moglie. Ricordo che abbiamo fatto il tragitto per ritornare a Pavia senza dire nemmeno una parola». I primi mesi sono tremendi: il medico pavese accarezza per un attimo persino l’idea di un suicidio assistito e per questo prende contatto con la famigerata clinica svizzera “Dignitas” per avere informazioni. «Mi sono isolato per nove mesi da tutto e da tutti – prosegue – anche da mia moglie e dai miei figli, per rifugiarmi tra le montagne di Livigno, la mia seconda casa. Per me le montagne erano e sono tutto: guardarle dal basso verso l’alto con la consapevolezza che non avrei più potuto camminare, scalare o sciare, mi faceva una rabbia… Poi una mattina, affacciandomi per l’ennesima volta dalla solita finestra, ho riguardato le mie montagne. Questa volta senza collera, semplicemente ammirandone la bellezza». Per Melazzini è un nuovo inizio. Un nuovo inizio in cui la fatica e il dolore fisico non sono cancellati, anzi, ma la scoperta che tutto ha un senso fa la differenza. «Mi sono accorto – dice – che ciò che c’è è meraviglioso, e ci viene regalato. Noi apparteniamo a Qualcun altro ed è bellissimo esserci, è bellissimo esistere. Nessuna condizione di malattia può impedirci di scoprirlo». Dentro questa sofferenza per il medico lombardo si sono aperti incontri inaspettati, sguardi carichi di curiosità e attenzione. È questo il segreto: lo sguardo. Quello che uno ha verso le cose e quello che uno riceve ogni giorno da quelli che ci circondano. «Senza l’abbraccio di coloro che mi stanno vicino non potrei fare niente. È questo oggi il dramma di molti malati: essere lasciati soli ad affrontare le loro difficoltà e le loro sofferenze. Perfino il medico, a cui il paziente si consegna totalmente, spesso è a corto di parole, o peggio, di compassione, nel momento in cui deve riferire ad una persona una diagnosi infausta. Nella società attuale c’è purtroppo il concetto che, in certe condizioni, la vita diventi indegna di essere vissuta. Si tratta a mio modesto parere di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una situazione di fragilità, malattia, sofferenza. Il mio è un male inguaribile, ma non incurabile. Adesso è questo il mio obiettivo, come medico, come malato e come uomo: curare, essere d’aiuto ai miei pazienti e ai miei compagni di malattia in tutte le fasi del loro difficile percorso». Ma può davvero un malato di Sla essere felice trasmettere questa felicità agli altri? In fondo il dubbio che il dottor Melazzini sia un po’ visionario potrebbe sorgere… Bisognerebbe vederlo all’opera per rendersi conto se lui è quello che dice. Emmanuel Exitu, regista di origini bolognesi, ha raccolto questa sfida ed ha realizzato un film-documentario dal titolo “Io sono qui. La realtà è sempre positiva” nel quale viene raccontata la settimana-tipo del medico pavese: una settimana fatta di instancabile lavoro e rapporto con i pazienti, di nutrimento tramite PEG (gastrotomia percutanea) , di riposo con il ventilatore per supportare la respirazione. Exitu ammette che pensava di dover raccontare una malattia; «invece ho avuto davanti un uomo, ho raccontato non la storia di un malato ma quella di un uomo».

Pubblicato su La Sicilia domenica 26 agosto 2012

lunedì 27 agosto 2012

Alla scoperta dell'Albania, terra di libertà riconquistata e di acerba spiritualità


C’è un po’ d’Albania nel Bel Paese: più di cinquecentomila albanesi che, dopo i romeni, sono la seconda comunità straniera, hanno salde radici qui da noi. La stragrande maggioranza di essi provengono dal gigantesco flusso migratorio degli anni novanta, originato dagli stravolgimenti che l’Albania si trovava ad affrontare all’indomani del crollo del regime comunista che l’aveva lasciata in disastrose condizioni economiche e spirituali. Ma chi sono davvero gli albanesi? Troppo spesso infatti, nell’immaginario collettivo italico, alla parola “albanese” sono associati stereotipi legati ad aspetti negativi, deteriori e marginali della società. La storia dell’Albania, inoltre, è rimasta sepolta in un oblio pressoché totale sebbene essa sia legata a doppio filo con gli eventi che hanno portato alla costruzione dell’identità europea. Ma per guardare con verità e senza pregiudizi alla propria storia è necessario partire dalla verità della propria esistenza. È stato proprio questo il punto di partenza da cui ha preso le mosse la mostra, allestita al Meeting di Rimini in occasione dei cento anni dell’indipendenza, “Albania, Athleta Christi: Alle radici della libertà di un popolo”. I curatori hanno voluto sottolineare come l’incontro personale con il cristianesimo abbia risvegliato in loro quelle domande fondamentali che albergano nel cuore di ogni uomo, domande sul senso della vita e della morte, sulla felicità e sulla giustizia. Questioni che hanno fatto riaffiorare la grande domanda che costituisce il nerbo della storia millenaria del popolo cui appartengono: cosa vuol dire essere liberi davvero? La mostra fa vedere come quattrocento anni di dominio turco e cinquant’anni di feroce dittatura comunista hanno segnato pesantemente il volto di questa nazione e la libertà è stata da sempre un desiderio per cui molto si è combattuto e molto sangue è stato versato. Il contributo dei cattolici nel portare a compimento questo percorso tutt’altro che lineare è stato assolutamente decisivo. Fin dal XV secolo quando Giorgio Castriota Scandenberg, il condottiero considerato ancora oggi un vero e proprio mito dagli albanesi, sconfisse ripetutamente gli eserciti del sultano e venne per questo appellato da papa Paolo II “Athleta Christi”, passando per il XIX dove l’opera instancabile di francescani e gesuiti contribuì in maniera formidabile alla formazione dell’identità dell’Albania, fino a giungere alla brutale dittatura comunista di Enver Hoxha che perseguì scrupolosamente il progetto di eliminare, anche fisicamente, qualsiasi aderente ad una confessione religiosa con lo scopo di sostituire ad essa un “dio nuovo”: il Partito e il Capo del Partito. L’Albania di oggi vive una libertà mai sperimentata prima, ma è una libertà senza volto, ridotta all’assenza di vincoli e controlli. È in tale contesto che ci soccorre la testimonianza di Madre Teresa, «albanese di sangue», secondo cui la vera libertà risiede nella religiosità e negare il rapporto con Dio apre le porte ad ogni sorta di prevaricazione e violenza. È un messaggio che ripropone domande universali e va al cuore di ogni esperienza umana e per questo, in fondo, possiamo dirci tutti un po’ albanesi.

Pubblicato su La Sicilia sabato 25 agosto 2012

domenica 26 agosto 2012

Raccontare la verità senza veli né bavagli

«La verità è semplice ed è facile riconoscerla, perché ha uno splendore e parla da sola. Quando non parla è perché qualcuno le ha tappato la bocca». A partire da quest’affermazione di Antonio Preziosi, direttore di Radio Uno e Gr Rai, si sono confrontati davanti alla platea del Meeting di Rimini, altri due giornalisti alla guida di importanti testate: Roberto Napoletano, direttore del Sole 24Ore, e Marco Tarquinio, direttore di Avvenire. Il tema è appassionante, soprattutto per chi di mestiere fa il cronista: raccontare la realtà. «Questa è una bella cosa – ha sottolineato Tarquinio –, i giornali dovrebbero aiutare le persone ad aprire gli occhi, ad avere consapevolezza, perché la consapevolezza cambia il mondo, ma quello che spesso manca è un’onestà intellettuale che eviti, ad esempio, quella pigrizia strisciante di tanto giornalismo italiano che invece di fare inchieste per proprio conto diventa la cassa di risonanza delle procure». Invece, ha affermato Napoletano, bisogna essere disposti a “scavare, scavare, scavare”, per arrivare al fatto e alla notizia. Non si deve spacciare il verosimile per vero, come aveva detto qualche tempo fa il cardinale di Milano Angelo Scola incontrando i giornalisti lombardi, e per questo bisogna sempre essere rigorosi nella verifica delle fonti. «La realtà – ha proseguito Napoletano – cambia di giorno in giorno e raccontarla significa assumersi delle responsabilità nella scelta di temi, argomenti e titoli». Raccontare ad esempio la notizia per eccellenza di questi ultimi tempi, la crisi economica, senza dare nulla per scontato e senza chiudere gli occhi davanti alla realtà, implica in effetti scelte professionali impegnative. «Innanzitutto – ha ribadito Tarquinio – bisogna tener presente che la realtà è sempre un avvenimento, mai uguale a se stesso e che al centro della realtà ci sono uomini e donne in carne e ossa, persone precise, alle prese con i problemi e i drammi di tutti i giorni e non questioni astratte. Non bisogna perdere il rapporto tra il particolare ed il contesto, fra la totalità e il dato contingente, come amava dire don Giussani ai suoi amici giornalisti». «Il Gr Rai e Radio Uno – ha proseguito Preziosi – raccontano la crisi con l’occhio del radiocronista come se fosse “Tutto il calcio minuto per minuto”. La copertura è minuziosa, dettagliatissima, obiettiva. Perché se la crisi non la si racconta, la crisi non esiste e se non esiste la gente non la capisce e così diviene ancora più subdola». «Invece – ha detto infine Tarquinio – accanto a chi vuole spolpare l’Italia, alla disoccupazione, ai prezzi che crescono e allo spread che vola, ci sono un Paese solido, imprenditori che resistono, un’economia di comunità che ha fatto grande e bello il nostro Paese. Di tutto questo è necessario scrivere e raccontare».


Pubblicato su La Sicilia mercoledì 22 agosto 2012