“Lei ha la Sla e io mi fermo qua”. È
facile immaginare lo stato d’animo di un uomo a cui viene annunciata in modo
così brutale quella che è praticamente una sentenza di morte; se quest’uomo poi
è anche un medico si può capire come la notizia assuma il tono quasi grottesco
della beffa. Ma è proprio questa frase che Mario Melazzini, oncologo di
successo e direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, si è
sentito rivolgere nel gennaio 2003 quando apprende di essere affetto dalla
sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa che compromette
lentamente tutte le funzioni motorie, dall’uso degli arti superiori e
inferiori, fino alla deglutizione, fonazione e respirazione. La prognosi è
infausta: circa l’80% dei malati di Sla muoiono entro 3-5 anni dall’insorgere
della malattia. «Quando in ospedale ho iniziato a trascinare il piede sinistro
sul linoleum del corridoio – racconta Melazzini – pensavo di essere stressato e
per “scaricarmi” un po’ ho pensato di inforcare la bici, il mio ansiolitico. Ma
mi accorgevo di stancarmi prestissimo e certe volte mi addormentavo a tavola!
Ho ritardato a sottopormi a degli esami forse per una paura inconscia, ma alla
fine, con il sopraggiungere dei crampi ho dovuto accettare il consiglio di un
amico neurologo di prenotare una biopsia all’istituto Besta di Milano: ero
diventato un paziente». Melazzini per la prima volta si trova dall’altra parte
della barricata; lunghe code agli sportelli, liste d’attesa per gli esami e,
quel che è peggio, sperimenta tutta l’indifferenza del personale medico-sanitario.
Un lungo calvario, in cui i problemi fisici aumentano progressivamente,
culminato quel 17 gennaio di nove anni fa quando gli viene comunicata l’esatta
natura del male: sclerosi laterale amiotrofica. «Mi trovavo a Padova quando ho
appreso la diagnosi – dice ancora Melazzini – ed ero insieme a mia moglie.
Ricordo che abbiamo fatto il tragitto per ritornare a Pavia senza dire nemmeno
una parola». I primi mesi sono tremendi: il medico pavese accarezza per un
attimo persino l’idea di un suicidio assistito e per questo prende contatto con
la famigerata clinica svizzera “Dignitas” per avere informazioni. «Mi sono
isolato per nove mesi da tutto e da tutti – prosegue – anche da mia moglie e
dai miei figli, per rifugiarmi tra le montagne di Livigno, la mia seconda casa.
Per me le montagne erano e sono tutto: guardarle dal basso verso l’alto con la
consapevolezza che non avrei più potuto camminare, scalare o sciare, mi faceva
una rabbia… Poi una mattina, affacciandomi per l’ennesima volta dalla solita
finestra, ho riguardato le mie montagne. Questa volta senza collera, semplicemente
ammirandone la bellezza». Per Melazzini è un nuovo inizio. Un nuovo inizio in
cui la fatica e il dolore fisico non sono cancellati, anzi, ma la scoperta che
tutto ha un senso fa la differenza. «Mi sono accorto – dice – che ciò che c’è è
meraviglioso, e ci viene regalato. Noi apparteniamo a Qualcun altro ed è
bellissimo esserci, è bellissimo esistere. Nessuna condizione di malattia può
impedirci di scoprirlo». Dentro questa sofferenza per il medico lombardo si
sono aperti incontri inaspettati, sguardi carichi di curiosità e attenzione. È
questo il segreto: lo sguardo. Quello che uno ha verso le cose e quello che uno
riceve ogni giorno da quelli che ci circondano. «Senza l’abbraccio di coloro
che mi stanno vicino non potrei fare niente. È questo oggi il dramma di molti
malati: essere lasciati soli ad affrontare le loro difficoltà e le loro
sofferenze. Perfino il medico, a cui il paziente si consegna totalmente, spesso
è a corto di parole, o peggio, di compassione, nel momento in cui deve riferire
ad una persona una diagnosi infausta. Nella società attuale c’è purtroppo il
concetto che, in certe condizioni, la vita diventi indegna di essere vissuta.
Si tratta a mio modesto parere di un’offesa per tutti, ma in particolar modo
per chi vive una situazione di fragilità, malattia, sofferenza. Il mio è un
male inguaribile, ma non incurabile. Adesso è questo il mio obiettivo, come
medico, come malato e come uomo: curare, essere d’aiuto ai miei pazienti e ai
miei compagni di malattia in tutte le fasi del loro difficile percorso». Ma può
davvero un malato di Sla essere felice trasmettere questa felicità agli altri? In
fondo il dubbio che il dottor Melazzini sia un po’ visionario potrebbe sorgere…
Bisognerebbe vederlo all’opera per rendersi conto se lui è quello che dice.
Emmanuel Exitu, regista di origini bolognesi, ha raccolto questa sfida ed ha
realizzato un film-documentario dal titolo “Io sono qui. La realtà è sempre
positiva” nel quale viene raccontata la settimana-tipo del medico pavese: una
settimana fatta di instancabile lavoro e rapporto con i pazienti, di nutrimento
tramite PEG (gastrotomia percutanea) , di riposo con il ventilatore per
supportare la respirazione. Exitu ammette che pensava di dover raccontare una
malattia; «invece ho avuto davanti un uomo, ho raccontato non la storia di un
malato ma quella di un uomo».
Pubblicato su La Sicilia domenica 26 agosto 2012