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martedì 25 marzo 2014

Davanti alla bellezza siamo tutti uniti

La professoressa Wakako Saito, buddista di tradizione Shingon Mikkyo e docente di lingua e cultura italiana all’università di Nagoya, mai avrebbe potuto immaginare che ciò che le è accaduto nel lontano 1987 l’avrebbe un giorno portata a Catania a raccontare la sua storia. Ad ascoltarla e interrogarla c’è un nutrito gruppo di studenti del liceo Spedalieri. Con loro la prof giapponese dialoga sulle questioni più importanti della vita come il senso del dolore e della morte, la ricerca della felicità e l’apertura al Mistero.

Professoressa com’è nato questo forte legame d’amicizia con l’Italia?
«Durante la Settimana italiana del centro internazionale del Comune di Nagoya, dovevo organizzare una conferenza proprio sull’Italia e mi domandavo quale sarebbe stato l’elemento peculiare su cui incentrare la discussione. La cucina? Ma la cucina italiana è nota, la pizza, gli spaghetti li facciamo anche noi giapponesi anche se voi siete insuperabili. La moda forse? Ma neanche quella mi sembrava soddisfacente perché desideravo parlare di qualcosa che esprimesse la radice più profonda della cultura italiana. Ho pensato allora che questa fosse da ricercarsi nel cristianesimo, perché è proprio il cristianesimo che ha creato la cultura dell’Italia. Una mia amica italiana allora mi ha suggerito di invitare un certo mons. Luigi Giussani, che insegnava all’Università Cattolica di Milano, a parlare del cristianesimo. Io l’ho invitato ma non consideravo certo che sarebbe venuto: troppo impegnato con i suoi giovani, troppo lontano il Giappone, pensavo… E invece ha accettato! Da quel giorno è nata una grande amicizia con i monaci buddisti del monte Koya ed in particolare con Shodo Habukawa il mio maestro».

Un’amicizia che l’ha condotta fin qui a Catania…
«Sì, non avrei mai immaginato che un giorno sarei venuta dal Giappone in Sicilia, a Catania e avrei visto così tante cose belle e incontrato così tanti giovani. Non l’ho progettato, ma il Mistero, grazie al quale tutto accade nella mia vita, mi ha portato sino a qui».

Lei usa questa parola Mistero. Ma cos’è il Mistero per la tradizione buddista?
«Nel Buddismo esistono tante divinità diverse tramite le quali possiamo incontrare il Mistero. Inoltre, secondo la nostra tradizione, la contemplazione della ricchezza e della bellezza della natura ci consente di abbracciare sempre più il Mistero».

Due questioni che spesso vengono avvertite in modo più evidente dai giovani riguardano il senso del dolore e la ricerca della felicità. Noi occidentali pensiamo che per il Buddismo la felicità implichi una fuga dalla realtà. È davvero così?
«Nient’affatto! Il Buddismo non è una religione che contempla la fuga dalla realtà, noi buddisti accettiamo la vita con le sue difficoltà, le sue sofferenze e siamo anche noi alla ricerca della felicità come voi cristiani. I giapponesi per cultura ed educazione sono abituati a non manifestare esternamente i propri sentimenti, ma sono molto sensibili al dolore e alla morte. Quando c’è stato il grande terremoto del 2011 con quello tsunami terribile io mi trovavo in Italia ed ho pianto moltissimo al vedere quelle scene spaventose di morte e devastazione. I miei amici italiani mi hanno subito chiamato per confortarmi e mi hanno domandato cosa potevano fare per aiutarmi. Ricordo che abbiamo fatto un momento di preghiera in una scuola con i bambini, i quali hanno poi realizzato dei disegni da donare ai bimbi giapponesi, si è pregato per il Giappone nel duomo di Milano. Ma per noi buddisti oltre alla preghiera è importante l’azione: tornata in Giappone ho chiesto ai miei studenti la disponibilità ad organizzare opere caritative per sostenere le persone che avevano perso tutto. Questa è una cosa che ho imparato dal metodo cristiano!».

Cosa la colpisce maggiormente della tradizione cristiana?
«Approfondendo la vostra cultura mi sono accorta di quante affinità ci siano con la cultura e la tradizione giapponese: i monaci cristiani hanno creato la cultura italiana così come i monaci buddisti hanno creato la cultura giapponese. Il fondatore del Buddismo Shingon Mikkyo, quello più diffuso in Giappone, è stato il monaco Kobo Daishi vissuto tra l’VIII ed il IX secolo dopo Cristo, il quale si è stanziato sul monte Koya, una sorta di Terra Santa giapponese, ed ha fondato un’università per i più poveri. Gli anni trascorsi in Italia mi hanno fatto capire inoltre cos’è l’ecumenismo: non una tolleranza astratta secondo la quale, se ti vedo diverso da me, per venirti incontro devo modificare qualcosa di me così diventiamo amici. Assolutamente no! Per diventare amici con persone che sono diverse da me per lingua, tradizioni e religione, innanzitutto devo capire meglio chi sono io. Chi sono io come giapponese? Chi sono io come buddista? Ecco, ciascuno di noi deve scendere più nella profondità della sua esperienza personale e delle sue radici culturali e religiose. Venendo in Italia ho potuto vedere dovunque la bellezza del cristianesimo e questo mi ha aiutato moltissimo ad andare più in profondità nella mia esperienza buddista. Non a caso ai miei studenti di cultura italiana faccio leggere Dante Alighieri: lì si esprime tutta la bellezza del cristianesimo. Non dimenticatevi di questa bellezza, perché davanti alla bellezza siamo tutti uniti».


Pubblicato su La Sicilia venerdì 21 Marzo 2014


sabato 15 marzo 2014

La storia di Valentina, la 194 e la legge 40. Se la polemica nasconde il vero dramma:l'aborto

Qualche giorno fa il Comitato europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa ha bacchettato l’Italia per violazione dei diritti derivanti dalla legge 194. Troppi medici obiettori, sentenzia il Consiglio d’Europa, impediscono alle donne che vogliono interrompere la gravidanza di non poter esercitare i diritti concessi loro dalla legge. Sempre nei giorni scorsi, quasi in contemporanea, è saltata fuori la storia della giovane donna di 28 anni che ha abortito in un bagno dell’ospedale Sandro Pertini di Roma e che ha riacceso le polemiche tra quanti difendono la liceità dell’aborto trincerandosi dietro la legge 194 e quanti invece sostengono con forza la possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza. La vicenda in particolare è però un po’ più complessa di quel che appare e riguarda anche il dibattito intorno alla legge 40 sulla fecondazione assistita su cui in questi mesi sono stati sollevati dubbi di costituzionalità. La storia risale alla fine di ottobre del 2010, quasi quattro anni fa: Valentina Magnanti risulta portatrice sana di una “traslocazione reciproca bilanciata tra il braccio corto di un cromosoma 3 ed il braccio lungo di un cromosoma 5”, una grave malattia genetica, ma è fertile e dunque non può avvalersi della legge 40 la quale in questi casi garantirebbe anche la diagnosi pre-impianto che, com’è noto, implica la selezione degli embrioni con conseguente eliminazione di quelli malati a favore di quelli sani che possono così essere impiantati nell’utero materno. Il suo desiderio di maternità è però molto forte e alla fine arriva la gravidanza tanto desiderata. Ben presto però si scopre, attraverso una “villocentesi per lo studio del cariotipo fetale”, che la piccola nel grembo di Valentina è affetta da una gravissima malattia genetica che le lascerebbe poche settimane, se non addirittura pochi giorni di vita. La donna, d’accordo con il marito, decide di porre fine alla gravidanza giunta al quinto mese e si ricovera al “Sandro Pertini”. E qui accade l’episodio che in questi giorni ha scatenato su giornali, web e tv, una ridda di polemiche, indignazioni, prese di posizione: Valentina, racconta lei stessa, nel momento di maggior necessità, quando ormai le erano state indotte le contrazioni per il parto, viene abbandonata e, dopo quindici ore è costretta a partorire il feto morto nel bagno dell’ospedale assistita solo dal marito. Dopo questa esperienza drammatica i due coniugi decidono di intraprendere la via della fecondazione assistita con la diagnosi pre-impianto, ma non essendo sterili non possono accedervi. Si rivolgono allora al tribunale di Roma assistiti dagli avvocati Filomena Gallo e Angelo Calandrini, segretario e membro dell’Associazione Luca Coscioni. Il tribunale di Roma il 28 febbraio scorso ha emesso un’ordinanza nella quale solleva dubbi di legittimità costituzionale della legge 40 con le motivazioni che è “diritto della coppia avere un figlio sano” e che il diritto di “autodeterminazione nelle scelte procreative è inviolabile e costituzionalmente tutelato”. La parola adesso spetta alla Consulta che dovrà pronunciarsi nel merito l’otto aprile prossimo. Tutta la vicenda è stata resa nota lunedì scorso durante una conferenza stampa dell’Associazione Coscioni dalla stessa Magnanti. Fin qui i fatti. Ma a parte i dubbi che solleva la tempistica ad orologeria con cui la notizia è stata diffusa dopo quasi quattro anni dagli eventi e che sembra voler infliggere un altro colpo alla legge 40 che, sentenza dopo sentenza, la magistratura sta demolendo in barba alla sovranità del Parlamento che quella legge l’aveva legittimamente votata, oltre al fatto che le dichiarazioni della donna contrastano nettamente con quelle della Asl di Roma, questa è una storia che deve far riflettere, che non può non far emergere grandi interrogativi. Nella relazione degli avvocati Gallo e Calandrini pubblicata online sul Sole24ore in un passaggio si legge che «la coppia era costretta ad interrompere volontariamente la gravidanza». Perché “costretta”? Perché un padre e una madre devono essere costretti a sopprimere la vita di un figlio? In nome di cosa? È sufficiente rispondere “perché la legge lo consente”? L’aborto è diventato un dogma della modernità, intoccabile, immutabile, indiscutibile. Un dio spietato al quale offrire la nostra illimitata pretesa di autodeterminazione, complice anche la nostra idea distorta e mostruosamente darwiniana per cui merita di vivere solo colui che è sano e senza difetto; un’idea orrenda ed egoista di pietas che esige la soppressione del figlio per risparmiargli la sofferenza di una vita penosa e indegna, quando in fondo è la nostra di sofferenza che vogliamo risparmiarci; la nostra pretesa (assurda) del diritto al figlio, di essere padri e madri solo a determinate condizioni, come se migliaia di anni di storia umana non ci avessero insegnato che ogni persona è irriducibile a qualsiasi pretesa di dominio, fosse anche quella dei nostri genitori che ci vogliono sani e belli. Non che questo desiderio non sia legittimo, ci mancherebbe! Ma è proprio questa confusione tra desiderio e pretesa che ha prodotto nel tempo immani disastri. L’aborto è il frutto anche di una profonda solitudine in cui la donna incinta si trova immersa, un ambiente ostile (quello sanitario in primis) che al minimo problema, anziché condividere il dramma e la difficoltà, aiutando la donna a prendere coscienza che ciò che porta nel grembo non è un’escrescenza patologica, ma suo figlio,  preferisce spingerla verso l’interruzione della gravidanza. Questo è quello che ha vissuto Valentina, questo è quello che hanno vissuto migliaia di donne. Siamo realmente convinti che la 194 ci ha portato progresso, benessere e civiltà? Oppure che la fecondazione artificiale o la diagnosi pre-impianto, invasive oltre ogni immaginazione, siano la panacea di tutti i mali? Sono domande che una società che vuol davvero chiamarsi civile non può non farsi.


martedì 11 marzo 2014

Giovanni XXIII spiegato ai bambini

Il nome di Giovanni XXIII è legato spesso a quello di scuole e ospedali, è entrato nella toponomastica cittadina a denominare vie e piazze, ma i più giovani (e forse anche qualche adulto) probabilmente non sarebbero in grado di associare un volto a questo nome. E in effetti coloro che c’erano già al tempo di papa Giovanni oggi sono padri e madri, forse perfino nonni. Eppure Giovanni XXIII, il Papa buono, è stato a suo modo un rivoluzionario, è stato colui che ha indetto il Concilio Vaticano II inaugurando una stagione entusiasmante per la vita della Chiesa. Tra poco più di un mese questo gigante della fede sarà proclamato Santo, assieme all’altro suo grande successore Giovanni Paolo II. È bene allora che anche ai più piccini si racconti la storia di papa Giovanni, che proprio per loro aveva una speciale predilezione. A questo proposito è stato recentemente pubblicato un testo a cura di Marco Pappalardo, “Giovanni XXIII” (Il pozzo di Giacobbe, 2014), nel quale viene narrata la storia del Papa buono, un testo scritto apposta per i più piccoli, i quali possono così accostarsi con semplicità alle storia di questo santo straordinario. Grazie anche ad un apparato di illustrazioni molto ben curato, si racconta infatti la vicenda di don Angelo Roncalli, un parroco di umili origini proveniente da un paesino della provincia di Bergamo che è divenuto successore di S. Pietro. Giovanni XXIII, nel suo pur breve pontificato, è riuscito a conquistare l’affetto di tantissime persone, dentro e fuori la Chiesa, divenendo in brevissimo tempo uno dei papi più amati dei nostri tempi.


Pubblicato su La Sicilia sabato 8 Marzo 2014

domenica 2 marzo 2014

Giovani alla ricerca di adulti che offrano ipotesi per la vita

«Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità». Così scrivevano nel febbraio 2007 gli studenti del liceo Spedalieri di Catania, all’indomani dei tragici fatti del Massimino in cui perse la vita l’ispettore Raciti. Una lettera che ha avuto una vasta eco e che ha suscitato una vivace discussione tra i docenti e gli studenti di quella stessa scuola. Un gruppo di 28 insegnanti infatti dopo la pubblicazione della lettera scrissero una contro risposta nella quale affermavano che proporre «delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica». In questo dibattito si era inserito il prof. Pietro Barcellona, impressionato evidentemente dalla forza delle domande che emergevano nella lettera dei ragazzi, il quale scrisse a sua volta un editoriale su La Sicilia sostenendo che «scuola laica non significa neutrale» perché «chi insegna ha il dovere di esplicitare i propri valori e le proprie verità». Inoltre egli sosteneva che «la giusta esigenza dell’onestà intellettuale implica che chiunque parli dichiari in principio le proprie credenze e sia disponibile a metterle in discussione. È l’apertura all’altro, che garantisce la laicità e non il vecchio paravento della “neutralità”». Alcuni anni dopo un professore di Pedagogia generale dell’Università Cattolica, Giuseppe Mari, profondamente colpito dalle parole di Barcellona decide di incontrarlo e da quell’incontro è venuto fuori un libro-intervista che, man mano che si procede nella lettura, somiglia molto più al dialogo tra due amici di vecchia data, dal titolo “La sfida della modernità” (Editrice La Scuola, 2014).

Professore, cosa l’ha colpita maggiormente nell’incontro con il prof. Barcellona?
«La cosa che mi ha impressionato di più è che nonostante avessimo due orientamenti di fondo differenti, e due storie differenti, ci siamo incontrati su un terreno comune. E questo terreno comune è l’umanità, cioè il riconoscimento che l’essere umano ha qualcosa di particolare, qualcosa che già 2500 anni fa Eraclito chiamava il “Logos”, affermando che esso rende comune la realtà. Diceva il filosofo greco che per coloro che hanno il Logos l’esistente può essere avvicinato in maniera comune, mentre coloro che non fanno leva sul Logos vivono ciascuno racchiuso nel suo sonno. E mi domando se quest’immagine, dell’essere racchiusi nei propri sonni, non corrisponda a tante forme surrogate che oggi insidiano in particolare la vita giovanile e si configurano come fuga dalla realtà. Pensiamo infatti alle numerose forme di “addiction”, di dipendenza. Sono tutte esperienze che alla fine ci fanno sentire isolati all’interno di un mondo che ci siamo costruiti semplicemente per compensare le nostre frustrazioni.»

A proposito della famosa lettera redatta dagli studenti dello Spedalieri nel 2007 lei afferma nel libro che i ragazzi chiedevano alla scuola di affrontare esplicitamente le questioni etiche. Non le sembra che in gioco ci fossero ben più che le questioni etiche?
«L’etica non è staccata dalla vita, è una lettura sbagliata quella che ha portato a ritenere che l’etica sia una specie di facciata che nasconde la realtà. L’etica raccoglie le risposte alla domanda “che cosa è buono?” e questa domanda noi ce la poniamo di fronte ai fatti che ci sfidano. I ragazzi di fronte al tragico evento dell’uccisione dell’ispettore Raciti, si sono chiesti che cosa fosse accaduto, ma non sul piano della mera descrizione, bensì cercando di inquadrare questo fatto all’interno della vicenda umana. Barcellona si è introdotto in quel dibattito sottolineando come la laicità della scuola non significa neutralità, perché l’essere umano in quanto libero è un soggetto intenzionale. Anche quando dice di volersi elevare al di sopra delle parti in realtà assume sempre un punto di vista. Occorre quindi affermare schiettamente come la pensiamo entrando in un dialogo pacifico tra posizioni che vogliono andare a riconoscere la verità, cioè quell’elemento originario che si specchia nella realtà come condizione di partenza».

Lei accennava prima a queste “forme surrogate” che oggi insidiano la vita giovanile. Il prof. Barcellona nel dialogo con lei denunciava il fatto che i giovani sono diventati quasi una tabula rasa, non perché sono privi materialmente di riferimenti identitari, ma perché ne sono privi spiritualmente, soprattutto perché i padri hanno abdicato alla loro funzione.
«I giovani di oggi sono alla ricerca di adulti, cioè sono alla ricerca di gente che faccia loro delle proposte e non si tiri indietro rispetto a delle ipotesi o a degli orientamenti. Mente spesso gli adulti sono intimoriti ma questo è un grave errore, non devono avere paura di incontrare i ragazzi. Nel mio dialogo con il prof. Barcellona egli sottolineava proprio il fatto che ciascuno di noi quando entra in contatto con un giovane, è un modello che può anche essere rifiutato ma comunque costituisce un punto di riferimento. In questa direzione il ruolo della scuola è fondamentale. Mi viene da dire che la scuola è nata proprio come istituzione di cui la società si è dotata proprio per introdurre in essa i giovani. È un luogo che deve favorire l’emergere della domanda di senso, intesa non nella sua connotazione narcisistico-autoreferenziale, per cui ha senso solo ciò che mi soddisfa, ma come la direzione che fa crescere nella dignità. Per questo affermare che la libertà, che ci caratterizza in quanto uomini, si riduce alla semplice opzione è sbagliato, perché noi siamo liberi non quando scegliamo, ma quando scegliamo solo quello che ci merita, ossia il bene, ciò in cui si specchia il valore della nostra vita». 


Pubblicato su La Sicilia domenica 2 Marzo 2014

sabato 1 marzo 2014

E' la dignità la vera eredità di Solidarnosc

«Non sono un eroe». Così si schermiva nel 1981 Lech Walesa, storico leader e fondatore di Solidarnosc, a chi, osannandolo, gli domandava quale fosse il “segreto” del suo immenso successo che nel volgere di poco tempo aveva contagiato milioni di polacchi. Lo stesso Walesa proseguiva poi dichiarando che l’unico motivo per il quale moltissima gente lo seguiva era uno solo: perché diceva la verità. «Qualunque sia il sistema se non ci si fonda sulla verità e sull’onestà, non si ha nessuna possibilità. La verità è l’uomo. Non si può fare nulla contro la verità. Non la si può distruggere». Relegare dunque l’esperienza di Solidarnosc ad un passato ancorché recente ritenendola definitivamente tramontata è un’operazione antistorica perché in un tempo in cui l’identità della nostra vecchia Europa vacilla e ci si avvita su discussioni spesso sterili in materia di diritti reali o presunti, l’eredità del sindacato polacco può servire per riportare al centro del dibattito europeo il Soggetto, inteso non come individuo “e vinculis solutus”, ma come persona inserita in un contesto di relazioni più ampie che costiuiscono una civiltà. Da queste preoccupazioni nasce “Operazione Solidarnosc” (Salvatore Sciascia Editore, 2014) di Vincenzo Grienti che, attraverso una rigorosa indagine storica e utilizzando documenti e fonti dell’epoca, vuol mettere in evidenza quel fenomeno assolutamente originale ed inusitato che si è sviluppato in Polonia, un Paese del blocco sovietico ed in piena guerra fredda: la nascita del primo sindacato libero. Si tratta – secondo Grienti – della prima incrinatura al muro di Berlino che sarebbe poi definitivamente crollato nel 1989. Il volume dunque ripercorre la storia della Polonia nel secondo dopoguerra concentrandosi maggiormente negli undici anni (1978-1989) che effettivamente videro lo sbriciolarsi lento ma inesorabile del blocco comunista nell’Europa dell’Est. Il 1978 non è scelto a caso come punto di partenza perché è proprio quello l’anno in cui il polacco Karol Wojtyla diviene Giovani Paolo II, un pontefice che già l’anno successivo durante la visita nella “sua” Polonia mostra a tutto il mondo il profondo legame che esiste con la Sede Apostolica. Le vicende del pontificato si intrecciano dunque con quelle del sindacato guidato da Lech Walesa e con l’intensa attività diplomatica della Segreteria di Stato vaticana in favore della pace, del rispetto dei diritti umani e della dignità di ogni persona. Proprio la parola “dignità” sembra essere – nel testo di Grienti – la chiave per comprendere la portata dell’eredità di Solidarnosc. La grandezza dell’uomo infatti consiste nella sua dignità dalla quale scaturiscono i diritti inalienabili che guidano la persona all’interno delle relazioni che in ogni circostanza storica essa si trova a vivere. 


Pubblicato su La Sicilia domenica 9 Febbraio 2014