[foto D. Anastasi] |
Professor Nembrini, lei ha recentemente affermato che
oggi c’è un equivoco quando si parla di educazione. Può spiegarsi meglio?
«Noi pensiamo che il problema
siano i ragazzi, i nostri figli, i nostri alunni. In parte questo è vero; conosco
bene, insegnando ormai da quasi quarant’anni, il dramma profondo di questa generazione,
ma proprio per questo sostengo che il problema siamo noi adulti: la vera
emergenza educativa è l’adulto».
In che senso?
«Nel senso che per il fatto
che io, tu, noi siamo al mondo, educhiamo ossia trasmettiamo un certo
sentimento della vita. I genitori non sono solo quelli che danno la vita
biologica - quella possono darla anche i cani o i gatti - ma sono coloro che
danno anche un certo sentimento della vita, un certo modo di guardare alla
vita, alla sua bellezza, alla sua positività. Ricordo che un po’ di tempo fa mi
è capitato di leggere l’articolo di un neuropsichiatra americano il quale
sosteneva che già un feto nel grembo materno “sente” se sua madre è contenta di
sé, del marito, della sua gravidanza, insomma della vita oppure, viceversa, se è
scontenta, infelice o addirittura maledice la sua stessa gravidanza. Questo
segnerà immancabilmente il modo con cui il bambino, una volta diventato grande,
affronterà tutte le circostanze della vita. Dunque l’adulto è colui che
introduce il figlio, o l’alunno, ad un significato positivo e totale della
realtà».
C’è stato un momento particolare in cui ha capito cosa
significa davvero educare?
«C’è un episodio della mia
vita che effettivamente mi è rimasto impresso in modo indelebile nella memoria
e posso dire che in quel momento sono nato come educatore: ero intento a
correggere i compiti dei miei alunni e ad un certo punto mi accorgo che mio
figlio, a quel tempo ancora piccolo, era entrato nella stanza e mi fissava. Non
diceva niente ma io, guardandolo negli occhi è come se avessi scorto in lui
questa domanda: “Papà, assicurami che vale la pena venire al mondo!” Il
“mestiere” dei figli è guardare, guardare in continuazione ed in questo sono
bravissimi. Per questo la responsabilità di noi adulti, è partire dal nostro
desiderio di realizzazione - ma direi piuttosto dal nostro desiderio di
felicità che poi è lo stesso per tutti, adulti e ragazzi - testimoniando la
positività e la bellezza della vita, pur dentro le fatiche e le contraddizioni
di ogni giorno sfidando la libertà dei ragazzi che, misteriosamente, può anche
dire di no».
Eppure oggi sembra di vivere in una società senza
padri in cui, come osservava Claudio Risè, “si è smarrita la capacità di vivere
le domande elementari dell’esistenza…”
«Diciamo che è stata fatta
una guerra sistematica proprio all’idea stessa di paternità iniziando ad
indebolire anzitutto l’idea stessa di un Padre Eterno. Quindi la battaglia è
stata condotta prima di tutto sul piano religioso, ma ciò ha svelato tutta la
debolezza di questa cultura perché alla fine non solo si è fatta fuori l’idea
del Padre Eterno, ma anche l’idea di ogni paternità, di ogni autorità è stata
sminuita e svillaneggiata. In questo disastro culturale abbiamo davanti una
generazione di padri debolissimi che non hanno più il coraggio del loro ruolo e
tentano di sostituirlo con quello dell’ “amico” del figlio. Ma i nostri figli
non hanno bisogno di avere nei padri degli amici, hanno bisogno di un padre! Lo
chiedono a volte disperatamente e la sfida che oggi ci attende è capire
nuovamente qual è il ruolo del padre e dunque anche della madre perché è
proprio di questo che l’educazione ha più bisogno».
Pubblicato su La Sicilia sabato 4 Maggio 2013