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domenica 5 maggio 2013

Di padre in figlio quando l'educazione diventa un'avventura


[foto D. Anastasi]
Quarto di dieci figli, insegnante, padre di famiglia e oggi rettore della scuola paritaria La Traccia di Calcinate in provincia di Bergamo, Franco Nembrini ha fatto del mestiere dell’educatore la sua vocazione e il suo pane quotidiano. Autore di un libro di successo, “Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare” e appassionato studioso di Dante, ha fondato nel 2005 insieme ad alcuni studenti della Cattolica di Milano l’associazione “Centocanti” grazie alla quale la poesia dantesca è stata portata in giro per l’Italia, anticipando addirittura le lecturae Dantis di Roberto Benigni che per questo motivo lo ha voluto con sé qualche anno fa alla prima romana del suo spettacolo “Tuttodante”. Nembrini ha compiuto numerosissimi incontri con studenti, insegnanti, genitori nei quali ha messo sempre a tema la questione che tra tutte gli sta particolarmente a cuore e che oggi appare sempre più come una vera e propria emergenza: quella educativa.

Professor Nembrini, lei ha recentemente affermato che oggi c’è un equivoco quando si parla di educazione. Può spiegarsi meglio?
«Noi pensiamo che il problema siano i ragazzi, i nostri figli, i nostri alunni. In parte questo è vero; conosco bene, insegnando ormai da quasi quarant’anni, il dramma profondo di questa generazione, ma proprio per questo sostengo che il problema siamo noi adulti: la vera emergenza educativa è l’adulto».

In che senso?
«Nel senso che per il fatto che io, tu, noi siamo al mondo, educhiamo ossia trasmettiamo un certo sentimento della vita. I genitori non sono solo quelli che danno la vita biologica - quella possono darla anche i cani o i gatti - ma sono coloro che danno anche un certo sentimento della vita, un certo modo di guardare alla vita, alla sua bellezza, alla sua positività. Ricordo che un po’ di tempo fa mi è capitato di leggere l’articolo di un neuropsichiatra americano il quale sosteneva che già un feto nel grembo materno “sente” se sua madre è contenta di sé, del marito, della sua gravidanza, insomma della vita oppure, viceversa, se è scontenta, infelice o addirittura maledice la sua stessa gravidanza. Questo segnerà immancabilmente il modo con cui il bambino, una volta diventato grande, affronterà tutte le circostanze della vita. Dunque l’adulto è colui che introduce il figlio, o l’alunno, ad un significato positivo e totale della realtà».

C’è stato un momento particolare in cui ha capito cosa significa davvero educare?
«C’è un episodio della mia vita che effettivamente mi è rimasto impresso in modo indelebile nella memoria e posso dire che in quel momento sono nato come educatore: ero intento a correggere i compiti dei miei alunni e ad un certo punto mi accorgo che mio figlio, a quel tempo ancora piccolo, era entrato nella stanza e mi fissava. Non diceva niente ma io, guardandolo negli occhi è come se avessi scorto in lui questa domanda: “Papà, assicurami che vale la pena venire al mondo!” Il “mestiere” dei figli è guardare, guardare in continuazione ed in questo sono bravissimi. Per questo la responsabilità di noi adulti, è partire dal nostro desiderio di realizzazione - ma direi piuttosto dal nostro desiderio di felicità che poi è lo stesso per tutti, adulti e ragazzi - testimoniando la positività e la bellezza della vita, pur dentro le fatiche e le contraddizioni di ogni giorno sfidando la libertà dei ragazzi che, misteriosamente, può anche dire di no».

Eppure oggi sembra di vivere in una società senza padri in cui, come osservava Claudio Risè, “si è smarrita la capacità di vivere le domande elementari dell’esistenza…”
«Diciamo che è stata fatta una guerra sistematica proprio all’idea stessa di paternità iniziando ad indebolire anzitutto l’idea stessa di un Padre Eterno. Quindi la battaglia è stata condotta prima di tutto sul piano religioso, ma ciò ha svelato tutta la debolezza di questa cultura perché alla fine non solo si è fatta fuori l’idea del Padre Eterno, ma anche l’idea di ogni paternità, di ogni autorità è stata sminuita e svillaneggiata. In questo disastro culturale abbiamo davanti una generazione di padri debolissimi che non hanno più il coraggio del loro ruolo e tentano di sostituirlo con quello dell’ “amico” del figlio. Ma i nostri figli non hanno bisogno di avere nei padri degli amici, hanno bisogno di un padre! Lo chiedono a volte disperatamente e la sfida che oggi ci attende è capire nuovamente qual è il ruolo del padre e dunque anche della madre perché è proprio di questo che l’educazione ha più bisogno». 


Pubblicato su La Sicilia sabato 4 Maggio 2013


sabato 4 maggio 2013

In attesa del ritorno di Domenico Quirico...


Prima del 24 agosto 2011, il giorno del suo rapimento in Libia, non sapevo chi fosse Domenico Quirico. Mi trovavo nella sala stampa del Meeting di Rimini, da pochi mesi avevo iniziato a collaborare al quotidiano La Sicilia e per la prima volta partecipavo da giornalista alla grande kermesse romagnola. Eravamo in pochi quel pomeriggio a lavorare in sala stampa, molti erano in giro a seguire gli incontri o ad intervistare le varie personalità che si alternavano tra le sale della Fiera. Io ricordo che stavo scrivendo un pezzo sull’intervista che avevo fatto la mattina a due ragazzi egiziani, Mohamed e Assal, venuti a Rimini a lavorare come volontari dopo aver vissuto l’esperienza del Meeting del Cairo e che erano stati anche testimoni degli eventi di piazza Tahrir che portarono in quello stesso anno al rovesciamento del regime di Mubarak. Seduto al tavolo di fronte al mio si trovava il drappello dei giornalisti di Avvenire e, proprio di fronte a me, era seduto Giovanni Ruggiero, intento a scrivere sul suo pc bianco con il logo del giornale attaccato sul dorso.
A un certo punto, nel silenzio della sala rotto solo dal picchiettio delle dita sulle tastiere, Ruggiero esclama con costernazione portandosi le mani nei capelli: «Oh ragazzi, hanno preso quattro dei nostri in Libia! E’ uscita adesso un’AGI…». Si trattava di Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, Domenico Quirico de La Stampa e di Claudio Monici di Avvenire. Fortunatamente la nostra preoccupazione è durata lo spazio di ventiquattr’ore perché il giorno dopo i quattro inviati sono stati liberati. Anche in quel caso è stato lo stesso Giovanni Ruggiero che, leggendo un’AGI e levando le braccia al cielo, ha dato la notizia dell’avvenuta liberazione a quelli che si trovavano lì in sala stampa. Da quel momento ho iniziato a leggere i reportage di Domenico Quirico, mi affascinava il suo stile grazie al quale riusciva a farti sentire gli stessi odori, gli stessi suoni che lui sentiva, ti faceva provare i sentimenti che lui stesso provava. Tra me e me pensavo: «Ecco uno da cui mi piacerebbe imparare a raccontare i fatti, la realtà…». Il 17 gennaio di quest’anno aveva pubblicato su La Stampa un reportage da Maarat An-Nouman, una cittadina non distante da Homs in Siria: un pezzo magistrale! Quando descrive l’ambiente di una casa da poco abbandonato dai soldati di Assad, ti aspetti quasi che da un momento all’altro questi sbuchino da un anfratto per crivellare  a colpi di kalashnikov lui e i miliziani ribelli che lo accompagnano : odori, suoni, sentimenti, tutto mischiato in una sinestesia che lascia senza fiato chi legge. Non è un incosciente però Domenico Quirico, anche lui ha paura eppure sa che deve essere lì. Il perché lo ha detto lui stesso poco tempo fa in un’intervista ad Alessandra Stoppa sul mensile Tracce. «Il reportage – diceva  – oggi vive una nuova necessità. Bisogna essere all’interno del fatto, rischiando, senza avere un modo per scampare a ciò che accade. Poi, c’è tutto il disperato tentativo della scrittura di restituire in minima parte gli uomini che vedo, di dare a te che non sei lì, almeno per un’infinitesima parte, il senso di esserci, di vedere». Inoltre denunciava la pigrizia dei giornalisti che spesso si accontentano di masticare le agenzie che arrivano al desk senza coinvolgersi, anche affettivamente: «Il problema dei giornali non è il bilancio in rosso, la pubblicità… Ma l’incapacità a raccontare il dolore». Per questo lui va; per condividere, condividere e trasmettere quanto siano a volte terribilmente reali le cose che vediamo. Quirico, come ha ricordato anche Mario Calabresi, è uno dei giornalisti più seri e preparati nell’affrontare situazioni di pericolo ed è per questo motivo che mi auguro con tutto il cuore di poter leggere presto il resoconto del suo viaggio a Homs.