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giovedì 2 febbraio 2017

La passione e la tecnica all'opera: quattro allievi pasticceri, un concorso e la nascita di un'amicizia.

I ragazzi di Galdus che hanno partecipato al concorso
Responsabilità, collaborazione e divertimento. Tre parole che sintetizzano in modo efficace l'esperienza al Salone internazionale di gelateria e pasticceria (Sigep) di Rimini dei quattro allievi del corso di operatore della trasformazione agroalimentare della scuola Galdus di Milano. Lara e Vincenzo, di seconda B, Chiara e Gloria, di terza A, raccontano la loro avventura riminese all'indomani del concorso intitolato “Il mangiar sano” che li ha visti protagonisti insieme ad altre undici squadre di altrettante scuole professionali provenienti da tutta Italia.
«Il nostro professore di panificazione Marco Zangrossi – raccontano i ragazzi – sapeva di questa gara e ha pensato di iscrivere alcuni di noi. Essendo un’esperienza del tutto nuova, mai provata prima, abbiamo subito accettato! Il tema del concorso, “Il mangiar sano”, prevedeva un dolce senza un allergene. Noi abbiamo deciso di escludere il lattosio perché oggi molte persone sono intolleranti a questa sostanza e altre invece, seguendo la dieta vegana, escludono qualsiasi alimento di provenienza animale. L’altro dolce doveva invece essere gluten free. Abbiamo iniziato così a progettare a scuola i dolci facendoci consigliare dai nostri professori tecnici e anche dal pasticcere Marco Pedron che ha gentilmente accettato di darci una mano su invito dello chef Bianucci, docente di Galdus». La gara è stata dura: quattro ore di tempo in cui bisognava impostare e portare a termine il lavoro; sei giudici che controllavano tutto, dalla pulizia, all'ordine della postazione, all'assaggio finale. Ma alla fine i quattro ragazzi ce l'hanno fatta. I loro dolci si sono piazzati al sesto posto ma, considerando il fatto che, mentre altre scuole si preparavano all'evento da settembre, loro hanno avuto solo pochi giorni, si può dire che è stato un successo. Non c'è però solo la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro ma anche la consapevolezza di aver vissuto un'esperienza importante dal punto di vista professionale e umano. «L'esperienza al Sigep – raccontano ancora i ragazzi – oltre ad averci fatto crescere a livello professionale, ci ha fatto crescere come persone facendoci conoscere una nuova realtà. Ritrovarsi davanti a sei giudici, riuscire a convincerli con la nostra idea portando un buon prodotto che un giorno magari potrebbe essere messo in commercio, aver lavorato in brigata con persone che non conoscevamo se non di vista è stata un'esperienza che ci ha fatto capire l'importanza di essere un gruppo. Dovevamo essere un grande gruppo per dare il meglio di noi e per arrivare in fondo. Non importa se non siamo saliti sul podio: la nostra vittoria è esserci conosciuti!».

I dolci preparati durante la gara:
“Ciocoglobe”, chiamato in questo modo perché «volevamo che la sfera rappresentasse il mondo in cui viviamo mentre l’interno del dolce doveva rappresentare le cose imprevedibili che puoi trovare nella vita. Il dolce è stato realizzato utilizzando una base di savoiardo senza glutine bagnato da latte di mandorla e zucchero. Il resto del dolce è stato fatto con degli stampini a semisfera poi successivamente assemblati. All'interno si trovano due mousse, una al cioccolato gianduia e l'altra con cioccolato fondente al 65%. Abbiamo pensato di caratterizzare i due cioccolati inserendo anche una gelatina al lime, basilico e alloro. Infine lo abbiamo rivestito con una glassa a specchio e decorata con zucchero caramellato. In questo caso l’accostamento tra l’acidulo del lime e il basilico voleva simboleggiare proprio l'imprevedibilità della vita».
Il secondo dolce è stato intitolato “Tutti per uno” perché «rappresenta i tre cereali antichi, farina di riso, orzo e farro, messi insieme. Dovendo essere senza lattosio e senza derivati di origine animale abbiamo sostituito il burro con olio di cocco e di semi. Per dare un gusto particolare abbiamo creato un infuso di orzo, camomilla e finocchietto. Abbiamo poi unito la scorza di arancia con nocciole, pistacchi e mandorle perché contengono diverse proprietà benefiche. Come decorazione infine abbiamo utilizzato zenzero fritto, scaglie di cioccolato e una crema senza lattosio».


venerdì 1 aprile 2016

Il presunto diritto al figlio e il dramma (taciuto) della maternità surrogata

[foto: nostrofiglio.it]
Mandy è una giovane signora, vive in Oregon, è moglie e madre di due bambine e ha deciso di essere una mamma "surrogata", ha deciso cioè di portare avanti una gravidanza al termine della quale il figlio appena nato sarà ceduto ad altre persone. La sua storia l'ha raccontata Giovanna Botteri in un servizio andato in onda il 31 marzo durante l'edizione serale del tg2. In poco più di due minuti e mezzo la giovane donna ha raccontato che la decisione di intraprendere questa strana carriera è dovuta a tanti motivi, uno su tutti perché "ama essere incinta". Mandy tuttavia sapeva già che nella sua famiglia ci sarebbe stato posto solo per due figli però, dopo aver partorito le sue due bambine, non aveva esaurito la voglia di essere incinta. Che fare allora? La soluzione la trova nella maternità surrogata: "Mi sono sentita investita -  racconta - dal dovere di aiutare le persone che, per svariati motivi, non possono avere figli". L'intervistatrice le chiede allora quale sia il rapporto con il figlio portato in grembo. "Il rapporto - risponde Mandy -  cambia in base alla relazione che si costruisce durante la gravidanza tra le surrogate e i genitori adottivi". Essere una surrogata è come tenere in braccio il bambino del tuo migliore amico, solo che non lo tieni in braccio ma nella pancia. Far nascere un bambino che non è legato a me in nessun modo è la cosa più positiva che io possa fare nella vita: nemmeno una volta ho sentito un attaccamento materno, un diritto o un attaccamento parentale. E' stato piuttosto come pensare di dare ad uno dei miei migliori amici il miglior regalo possibile..." 
Forse qualcuno  ascoltando queste parole forse si sarà commosso ma dietro il sorriso sbarazzino di questa mamma (surrogata) americana, che parla dei figli come di un grazioso cadeau da elargire agli amici più intimi, nascono degli interrogativi inquietanti. 
Mandy dice che mai, nemmeno una volta, ha sentito un attaccamento materno verso il bambino che portava in grembo. Eppure le più avanzate frontiere della medicina perinatale e della neonatologia sono concordi nell'affermare che durante la gravidanza si crea, tra madre e figlio, un legame fisico e psichico reciproco ed estremamente complesso. Come afferma Carlo Bellieni, noto pediatra e saggista italiano "la psiche materna reagisce coscientemente e incoscientemente in funzione di quello che è l'essere umano concepito". E' quindi impossibile che una mamma in gravidanza non sia minimamente coinvolta da quello che le sta accadendo a meno di svuotarsi completamente della propria umanità e accettare il ruolo di "incubatrice umana". 
Secondariamente, di fronte a questa edulcorata rappresentazione della maternità surrogata, considerata come l'avamposto della civiltà, non si dimentica forse proprio il bambino? Il bambino che Mandy ha portato per nove mesi nel suo grembo non si è forse nutrito con il cibo che lei ha ingerito? Non si è addormentato al battito ritmico del suo cuore? Non ha imparato a riconoscere la voce di Mandy che gli arrivava, soffusa, attraverso il sacco amniotico? Se anche la giovane mamma americana non ha mai sentito un attaccamento materno certamente il suo bambino quell'attaccamento non solo lo ha "sentito", ma l'ha anche "sperimentato".
Da ultimo non bisogna dimenticare il compenso perché una surrogata non è affatto una benefattrice che agisce gratuitamente. La questione spesso viene taciuta perché è più comodo concentrare l'attenzione sugli aspetti sentimentali. La verità è che la maternità surrogata è un business con un giro di cifre da capogiro. Basta effettuare una semplicissima ricerca in Internet usando le giuste parole chiave (in inglese) e subito vengono fuori i nomi delle cliniche con tanto di tariffario in cui tutto, anche gli eventuali "incidenti di percorso", viene quantificato e monetizzato. E non si tratta di un obolo simbolico ma di alcune decine di migliaia di dollari. Soldi che garantiranno certamente il benessere di colei che affitta il suo utero guadagnati però giocando con la vita di piccoli esseri umani trattati come merci di lusso per soddisfare un presunto diritto di alcuni pochi individui.


giovedì 31 marzo 2016

Sussidiarietà riduce il debito pubblico

[foto ilsussidiario.net]
Il debito pubblico italiano, uno dei principali problemi della nostra economia, condiziona pesantemente le politiche fiscali messe in campo dal governo che deve quindi limitare giocoforza la spesa pubblica. Questi “tagli lineari” alla spesa non hanno però prodotto i risultati sperati tanto è vero che essa, anziché diminuire, ha continuato a crescere soprattutto per effetto dell'aumento delle spese relative alle prestazioni sociali, in particolare alle pensioni. Davanti a questi interventi palesemente insufficienti è necessario affiancare un modello di spesa pubblica che sia basato sul principio di sussidiarietà. A sostenerlo è Giorgio Vittadini, docente di Statistica presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà che nel recente volume “Sussidiarietà e... spesa pubblica” affronta proprio questo problema.

Professore, nel Rapporto sulla Sussidiarietà 2014/2015 si afferma che oggi più che mai c'è bisogno di un modello di spesa pubblica basato sul principio di sussidiarietà...
«In questi anni si è dato addosso agli enti locali sostenendo che essi siano fonte di spreco e quindi una delle principali cause del debito pubblico ma la prima parte del Rapporto mostra che questo non è vero: nel corso degli anni '90 siamo passati da un 60% ad un 120% di debito sul PIL proprio a causa della spesa centrale. Dunque non è il federalismo ad essere il responsabile di questa situazione e questo è il primo aspetto. Il secondo dato emerso dal Rapporto, grazie all’utilizzo di un modello econometrico sui ventotto Paesi europei, dice che, a parità di spesa pubblica, il Pil aumenta se aumenta la spesa a livello locale. Questo vuol dire che il federalismo è un fattore moltiplicatore di sviluppo e la sussidiarietà verticale, cioè le componenti di spesa pubblica che vengono trasferite dal governo centrale ai livelli decentrati del governo, quando è fatta bene, crea sviluppo. Certo, dev'essere fatta bene non ci deve essere spreco».

Nel Rapporto si mette in evidenza anche il fatto che la spesa pubblica in Italia ha un andamento a-ciclico, aumenta cioè sempre a prescindere dalla presenza di fasi espansive o recessive del ciclo economico. Com'è possibile?
«I governi che si sono succeduti hanno preso sotto gamba la situazione del debito così quando andava male non hanno risparmiato e quando andava bene non hanno usato questi soldi per diminuire il debito: questa è la zavorra che ci portiamo dietro! È come una famiglia che, avendo dei debiti, nel momento in cui ha un guadagno anziché saldare quello che deve consuma tutte le risorse che ha guadagnato. È stata l'irresponsabilità dei governi, soprattutto quelli della prima Repubblica, a aver creato questa situazione soprattutto tra gli anni '80 e '90 e durante la seconda Repubblica non si è pensato di correre ai ripari. Ma se non riduciamo questa enorme entità della spesa pubblica corrente, come l'Europa giustamente ci chiede, non ne verremo mai fuori».

La “sussidiarietà orizzontale” è il meccanismo che riguarda alcune componenti del bilancio pubblico come l'otto o il cinque per mille, entrate fiscali la cui allocazione è decisa dalle persone e non dal governo centrale. Questo meccanismo ha scarsissimo peso nel nostro paese. Perché?
«Questo è un punto sul quale siamo indietro politicamente sia a destra che a sinistra. La sinistra perché statalista, la destra perché sostiene il mercato selvaggio. Ma questo vuol dire che è lo Stato a portare da solo tutto il peso del welfare e che stiamo scavando a livello sociale un solco sempre più profondo tra ricchi e poveri. Tutte le teorie più moderne elaborate da autori come Lester Salamon e altri ci dicono che è il partenariato pubblico-privato che permette di superare i problemi del welfare moderno perché lo Stato non ha più soldi, il mercato non funziona e quindi è necessaria questa collaborazione. Destra e sinistra nostrane dovrebbero superare una buona volta i loro storici schemi mentali».

Il decentramento della spesa pubblica è sempre una mossa vincente?

«Bisognerebbe cominciare ad usare la sussidiarietà fiscale, distinguere cioè tra ciò che è sviluppo, ciò che è ridistribuzione e ciò che è rendita. Premiare quindi gli enti locali che funzionano e sanzionare quelli che non funzionano, ormai si può fare e se non lo si fa è solo per motivi di copertura politica. È venuto il momento: ognuno deve prendersi le sue responsabilità».

Pubblicato su La Sicilia giovedì 31 Marzo 2016

martedì 15 settembre 2015

Eva Mascolino: "La mia scrittura parte dalla realtà".

[foto ANSA]
Due anni fa era tra i venticinque semifinalisti del “Campiello giovani”, il premio letterario riservato agli scrittori in erba con un'età compresa tra i 15 e i 22 anni; oggi la ritroviamo vincitrice, ancora un po' incredula, della ventesima edizione del concorso. Eva Mascolino, studentessa di Lingue e culture straniere all’università di Catania, questa volta è riuscita a convincere i giudici che, il 12 settembre scorso, hanno deciso di premiare il suo “Je suis Charlie”.

Eva quali sono state le prime sensazioni che hanno accompagnato la vittoria del “Campiello giovani”?
«Innanzitutto molto stupore perché davvero non mi aspettavo di vincere. Un'altra sensazione è stata certamente di orgoglio perché la notizia è stata accolta in Sicilia con grande gioia, molta gente mi ha telefonato dicendomi che era fiera di me e che la mia vittoria dava lustro a tutta l'Isola. Spesso si ritiene infatti che la qualità dell'istruzione nel meridione sia inferiore e quindi la vittoria in un concorso letterario di una persona che si è formata interamente al Sud è una bella soddisfazione per tutti».

Nella prima intervista su questo giornale raccontavi come scrivere fosse sì un aspetto importante nella tua vita ma quasi una sorta di hobby. Alla luce di questa vittoria come cambia il tuo rapporto con la scrittura?
«Beh non è mai stata solo un hobby, io ho sempre puntato sul fatto che da grande per me sarebbe divenuta qualcosa d'altro. Adesso siamo vicini al punto, i cui contorni sono ancora un po' sbiaditi, in cui può diventare anche un mestiere. Il mio ideale sarebbe scrivere opere, curare personalmente la traduzione in altre lingue in modo che il messaggio che desidero comunicare arrivi senza la mediazione di terzi e poi, nel tempo libero, dedicarmi al giornalismo».

Tu studi Lingue all’università di Catania, attualmente ti trovi in Francia per il progetto “Erasmus”, il protagonista del tuo racconto è un francese e la storia si snoda tra la Sicilia e Parigi sullo sfondo del terribile attentato alla redazione di “Charlie Hebdo”. C'è qualcosa che ti lega particolarmente al paese transalpino?
«Certamente sì. Il mio racconto era nato inizialmente proprio per raccontare la bellezza di Parigi, una bellezza che può diventare ossessiva, una bellezza che può far male, fino a far perdere addirittura l'orientamento di sé. Mi è capitata fra le altre cose una cosa piuttosto singolare: ho realizzato l'ambientazione del mio racconto molti mesi prima di conoscere la destinazione del mio Erasmus. Scoprire poi che avrei studiato nella stessa città scelta da me come luogo di nascita del mio protagonista mi ha colpito profondamente. Quindi posso ben dire che tra me e la Francia c'è un legame profondo, viscerale quasi».

Volevi scrivere un racconto su Parigi, nel frattempo è accaduto l'attentato a “Charlie Hebdo”. Perché hai deciso di inserire questo fatto di cronaca nella costruzione del tuo lavoro?
«Non riuscivo a trovare una trama stabile sul tema della bellezza stordente di Parigi. Poi c'è stato l'attentato. Mi sono accorta che i media manifestavano un interesse molto morboso per tutto quello che era successo. L'attentato ha colpito tutti ma alcuni l'hanno enfatizzato specialmente perché è successo nella civilissima Europa, fosse successo in Etiopia nessuno se ne sarebbe occupato. Questa cosa mi ha indignata. Il mio personaggio, che nel nucleo narrativo originario già faceva il vignettista, l'ho collegato alla vicenda di Charlie Hebdo in modo tale da legare alla trama originale il tema della denuncia sociale».

La realtà in questo caso ha preso, quasi di forza, il sopravvento. Com'è per uno scrittore il rapporto con la realtà?

«La realtà è uno spunto fortissimo e di sicuro senza realtà non ci sarebbe scrittura perché la fantasia per mettersi in moto necessita di molti input esterni. La realtà è la materia prima per plasmare quello che penso, che sento e che poi vale la pena di scrivere. La scrittura poi secondo me è anche un modo per proteggersi perché attraverso di essa si decide cosa filtrare della realtà e anche si riesce a darle un'interpretazione, ad inserirla in un quadro che sia compiuto perché in un racconto ci sono sempre un inizio e una fine. Però la realtà è fondamentale. Senza realtà non scriverei nulla».

Pubblicato su La Sicilia martedì 15 Settembre 2015

sabato 1 agosto 2015

"Sono stata accolta e ho riscoperto la mia fede"

[foto Giovanna Leoni]
La storia di Evelyne e di suo marito Peter narra di un lungo viaggio, un viaggio pieno di insidie, di rischi e di sofferenze, ma racconta anche di un incontro carico di speranza e di un'amicizia nata dalla consapevolezza che «in qualsiasi cosa, se si è attenti, si possono cogliere i segni della presenza amorosa di Dio». Partiti dal Congo, quattro anni fa, dopo aver attraversato il Mediterraneo stipati come animali a bordo di uno di quei relitti che i trafficanti di esseri umani si ostinano ad utilizzare come barche per incrementare i loro sporchi affari milionari, lei e Peter giungono a Lampedusa da dove poi vengono trasferiti e alloggiati in un albergo del centro di Monza insieme ad altri profughi. «Nel 2010 abbiamo deciso di lasciare il nostro Paese – racconta Evelyne – soprattutto perché la situazione politica era molto instabile e tendeva progressivamente a degenerare». Evelyne e Peter non hanno intenzione di venire in Italia ma, più semplicemente, desiderano trovare migliori condizioni di lavoro e di vita. Così, a piedi e con mezzi di fortuna, risalgono mezzo continente africano e, all'inizio del 2011, giungono a stabilirsi a Kufra, una piccola oasi della Cirenaica, la regione sud-orientale della Libia in pieno Sahara. Lì Peter trova da lavorare e sembra che finalmente la giovane coppia abbia trovato una sistemazione definitiva senonché la rivoluzione libica scombina ogni loro piano e li costringe a spostarsi verso Tripoli da dove poi si imbarcano per l'Italia. «Dopo un viaggio estenuante, in cui per tre giorni siamo rimasti immobili nella stessa posizione, appiccicati gli uni agli altri, senza mangiare e senza bere, siamo approdati a Lampedusa dove siamo stati accolti e rifocillati, ci è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e subito, il giorno dopo, siamo stati imbarcati per Genova destinazione Monza». Nel gruppo di profughi che soggiornano in albergo c'è una ragazza incinta, una gravidanza a rischio, ha bisogno di assistenza medica. In un ospedale, dove alcuni di loro si recano per avere aiuto, conoscono Maria, un'ostetrica che prende a cuore la loro situazione. Anche lei vive a Monza e, appena tornata a casa, racconta a sua mamma dell'incontro fatto, insieme vanno a trovare i profughi in albergo, cominciano ad insegnare loro i rudimenti dell'italiano, danno suggerimenti pratici, nasce un'amicizia. Maria e sua mamma fanno parte di un movimento ecclesiale, quello di Comunione e Liberazione, e quest'incontro segnerà per sempre la vita di Evelyne e Peter. «Attraverso i volti di Maria, poi di Paola e di tanti altri ho riscoperto il grande amore che Dio ha per noi, la grandezza di quello che ha operato nella nostra vita: ripenso soprattutto al nostro viaggio, al fatto che siamo arrivati sani e salvi mentre tanti come noi sono finiti in fondo al mare, ma penso anche alla mia famiglia, alle mie bambine...» È dentro quest'amicizia che in Evelyne rifiorisce il desiderio di fare la Cresima che lei e Peter hanno ricevuto nel Duomo di Monza il 9 maggio scorso. «Sono cresciuta in una famiglia cattolica, mia mamma è una donna di grande fede e per questo motivo sono stata battezzata subito dopo essere nata. Di solito in Congo i sacramenti si ricevono quando si è un po' più grandi, il Battesimo verso gli otto anni, la Comunione a tredici-quattordici anni e la Cresima perfino a 18 anni! Anche il matrimonio si celebra in modo un po' differente: prima si fa una cerimonia tradizionale nella quale lo sposo, portando una dote alla famiglia della sposa, sancisce in questo modo l'uscita definitiva di quest'ultima dalla casa paterna per accoglierla nella nuova casa. Senza questo “primo” matrimonio non ci si può sposare in chiesa». Anche Evelyne e Peter si sono sposati nella maniera tradizionale e avevano iniziato la preparazione alla Cresima in vista anche del matrimonio religioso ma poi il viaggio che li ha condotti a Lampedusa ha fermato tutto. «Quando siamo arrivati in Italia eravamo un po' spaesati, senza casa, senza una stabilità economica e alla Cresima non ci pensavo più di tanto. Poi l'incontro con gli amici del Movimento di CL ha cambiato la mia vita, il mio modo di pensare le cose: sono diventata più certa del fatto che voglio seguire Gesù. Con la Cresima – conclude Evelyne – ho voluto consolidare la mia fede e ringraziare il Signore di questi doni così grandi!».

Pubblicato su Credere n. 29 del 19 Luglio 2015

martedì 12 maggio 2015

Dal Congo a Lampedusa stipati su un barcone per una vita normale

[foto Social Channel]
Evelyne e Peter hanno attraversato il mare quattro anni fa. Anche loro stipati peggio delle bestie, corpi appiccicati a corpi, impossibilitati perfino a compiere il più piccolo movimento, sopra uno di quei relitti che gli “smuggler”, i biechi trafficanti di esseri umani, si ostinano ad usare come traghetti per alimentare i loro milionari affari di morte. Ma loro ce l'hanno fatta. Evelyne e Peter sono partiti dalla Repubblica Democratica del Congo, hanno percorso quasi 7000 kilometri, risalendo praticamente mezzo continente africano, prima di imbarcarsi dalle coste libiche alla volta dell'Italia. Fa un certo effetto incontrare oggi Evelyne in una tiepida ed assolata mattina di primavera in un caffè nel centro di Monza a pochi passi dal Duomo. Suo marito Peter è al lavoro e lei può dedicarmi solo poco tempo perché poi deve andare a prendere le sue due bambine all'asilo. Una ordinarietà della vita impensabile, e probabilmente insperata, fino a poco tempo fa.

Evelyne cosa vi ha spinto a lasciare il Congo?
«Ci sono stati diversi motivi per i quali nel 2010 abbiamo deciso di partire, alcuni sono personali ma altri sono legati al fatto che lì ormai non si stava più bene e la situazione politica era molto instabile e tendeva progressivamente a degenerare. Così ci siamo imbarcati su un mercantile e abbiamo risalito il fiume Congo con l'idea, almeno all'inizio, di raggiungere un'altra provincia del nostro Paese che fosse più tranquilla, nella quale si potesse vivere e lavorare. Non è andata però come speravamo. Io sono nata e cresciuta a Kinshasa, la capitale del Congo, e questa cosa ha creato una sorta di diffidenza tra noi e la gente del posto. Inoltre la zona non era così sicura come si pensava per cui abbiamo deciso di spostarci in un altro villaggio ma le condizioni di vita erano lontanissime da quelle a cui eravamo abituati».

E quindi siete ripartiti?
«Eravamo vicini al confine con la Repubblica Centrafricana e abbiamo deciso di spostarci lì. Erano gli ultimi mesi del 2010, si stavano preparando le elezioni politiche e presidenziali del 2011 e il popolo temeva che ci sarebbe stata ancora una volta una guerra dopo le elezioni, la situazione era drammatica. Siamo ripartiti. Viaggiando un po' a piedi e un po' chiedendo passaggi ai camion diretti a Nord siamo arrivati in Ciad. Non ci eravamo mai confrontati con una cultura islamica così forte e radicata, in Congo il 97% della popolazione è cristiana, e l'impatto è stato traumatico, almeno per me. Ero obbligata ad indossare il velo e ad osservare una serie di norme a cui non ero per nulla abituata. Per mio marito era abbastanza semplice la vita ma per me era molto, molto difficile. Avevamo sentito dire che in Libia c'erano buone opportunità di lavoro per cui, ancora una volta, ci siamo messi in viaggio».

Dove avete vissuto in Libia?
«A Kufra, un villaggio della Cirenaica, la regione sud orientale della Libia. Un'oasi nel mezzo del deserto del Sahara a mille kilometri dalle città costiere. Ma almeno c'era lavoro ed una relativa tranquillità. Ci saremmo stabiliti lì definitivamente se nel 2011 non fosse scoppiata la rivoluzione».

Cosa avete fatto?
«Eravamo intrappolati in quel villaggio circondato dal deserto, l'alternativa era ritornare verso Sud, affrontando il deserto a piedi o con qualche passaggio ma era troppo pericoloso. Sapevamo che a Tripoli gli stranieri venivano rimpatriati nei loro paesi d'origine con voli giornalieri e allora ci siamo messi in viaggio verso la capitale libica. Abbiamo viaggiato sopra delle autocisterne che trasportavano carburante, le strade erano piene di bande armate pronte a razziare qualsiasi cosa ed anche noi siamo stati derubati di tutto, soldi, telefoni, ogni cosa. Arrivati a Tripoli, dopo quasi un mese di viaggio, non avevamo più niente. La situazione era degenerata moltissimo, non c'erano più aerei, le ambasciate erano tutte chiuse, ovunque regnava il caos».

È stato in quel momento che avete deciso di attraversare il mare?
«Non c'era più una via d'uscita, dopo tutto quello che avevamo passato da quando avevamo lasciato il Congo, l'unica speranza era soltanto il mare. Peter ha lavorato come imbianchino per due settimane ed è riuscito a racimolare circa 500 euro. In questo modo insieme ad un'altra coppia abbiamo contattato le persone che organizzavano le traversate. All'inizio non volevano prenderci perché chiedevano più soldi ma poi hanno accettato. Ci siamo trasferiti su una spiaggia dove abbiamo aspettato due settimane, vivendo all'addiaccio, il momento favorevole per salpare. Alla fine siamo saliti su questa barca che era così piccola e noi eravamo tantissimi. Ci hanno stipati come se fossimo delle cose. Siamo rimasti così senza poterci muovere, in balia delle onde, senza bere né mangiare per due giorni. Tanti stavano male, vomitavano gli uni addosso agli altri, io mi ricordo che ad un certo punto un gruppo di ragazzi nigeriani diceva che portavo la maledizione sulla barca e volevano buttarmi a mare. Il malessere, la paura, il digiuno forzato mi hanno fatto svenire. Mi sono risvegliata in un letto d'ospedale a Lampedusa con il medico che mi confortava dicendomi che andava tutto bene, che ero in Italia e che ero incinta di tre mesi. Mi sono messa a piangere! Ho vissuto un'esperienza che non rifarei neanche in sogno perché, al di là dei rischi, è una cosa che quando la vivi una volta non vuoi riviverla mai più anche se il desiderio di avere un futuro migliore è davvero grande. A Lampedusa siamo stati accolti, ci hanno dato un paio di scarpe, vestiti puliti, il sapone per lavarci, ci è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e il giorno dopo siamo partiti con destinazione Monza. Da quattro anni ormai viviamo qui, le mia bambine sono nate in Italia, Peter ha un lavoro... Le difficoltà da affrontare certamente non mancano ma se penso a tutto quello che abbiamo vissuto prima direi che siamo stati fortunati. Sapere che ci sarà un domani è importante».

Pubblicato su La Sicilia venerdì 8 Maggio 2015





lunedì 30 marzo 2015

Scuola-bottega da settembre a giugno. "Il 70% trova lavoro nei primi sei mesi"

Non appena si varca la soglia della “Oliver Twist”, una scuola di formazione professionale situata alla periferia di Como ma dalla quale si gode lo splendido panorama del lago, poco prima del corridoio che conduce alle aule, si rimane impressionati dalla figura di un grosso gorilla ritratto in una posa bestiale e feroce. Un po' più avanti, però, appese in un cartiglio, si leggono le celeberrime parole rivolte dall'Ulisse dantesco ai suoi compagni: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Ogni mattina i quasi 400 ragazzi che frequentano la scuola sono chiamati a scegliere se vivere “come bruti” oppure se seguire “virtute e canoscenza” con l'aiuto dei propri docenti e dei tutor. «Avere tutti i giorni quest'immagine davanti agli occhi – racconta Vasile, che frequenta il terzo anno di falegnameria ed è di origine moldava – mi ricorda che questa scuola mi aiuta a scegliere cosa voglio essere ma mi ricorda anche che ci sono delle persone che sono lì per me, per darmi una mano. E devo dire che funziona!». La storia della“Oliver Twist” si inserisce in una storia più grande che ha inizio circa trent'anni fa e racconta della conversione alla fede cristiana di due fratelli, Erasmo e Innocente Figini. Da questa conversione è fiorita l'esperienza di Cometa: cinque famiglie vivono attualmente insieme in un'unica grande casa nella quale lo spazio intimo e privato di ciascuna famiglia si coniuga perfettamente con la scelta di condividere alcuni momenti importanti della giornata, come ad esempio quello dei pasti. Cinque famiglie con 56 figli, se si considerano quelli naturali e quelli in affido, e poi 60 famiglie che nel tempo si sono coinvolte nell'esperienza dell'accoglienza molte delle quali sono diventate a loro volta affidatarie. Per molti di questi bambini, una volta cresciuti, si è posto ad un certo punto il problema di insegnare loro un mestiere. L'esperienza dell'accoglienza e dell'educazione dei figli, insieme alla presa di coscienza nei confronti di quella tragica emergenza educativa che è la dispersione scolastica si è tradotta nell'apertura di un centro di formazione professionale il cui metodo educativo è lo stesso che ha animato l'origine di Cometa: la realtà che mi sta di fronte mi pro-voca, cioè mi chiama a farmi avanti. Così nel 2009 apre i battenti la “Oliver Twist”, una sorta di “liceo artigianale”, una scuola dove al centro ci sono i ragazzi con i loro desideri e i loro progetti. Non aule ma botteghe, cioè dei luoghi in cui lo studio teorico si fonde con la pratica, dove si impara dall'esperienza e dove gli insegnanti sono dei maestri. «Il risultato che si vuole raggiungere – spiega Alessandro Mele, direttore della scuola – è quello di una conoscenza non deduttiva, di impostazione idealistica, ma induttiva. Normalmente nei centri di formazione professionale prevale il primo tipo di impostazione: ti spiego una cosa, tu me la applichi. Noi vorremmo invece che la conoscenza nascesse dal rapporto con la realtà, che ci fosse una unità della conoscenza. È un tentativo culturale il nostro quello di provare a superare l'idealismo, che ha lasciato una impronta molto forte nella scuola italiana, senza però scivolare nel pragmatismo di matrice anglosassone ma, secondo il principio del realismo, vogliamo dare forma ad una scuola che educhi la ragione a partire dal rapporto con la realtà». Sulla brochure illustrativa della scuola fa un certo effetto leggere che i corsi si svolgono da settembre a giugno secondo il calendario scolastico. La formazione professionale in Italia, in particolare nella nostra Isola, è un po' la Cenerentola del mondo dell'istruzione: considerata una scuola di serie B soffre maledettamente i bizantinismi della burocrazia, soprattutto per quel che riguarda il reperimento dei fondi necessari all'attivazione dei corsi e al loro regolare svolgimento. Il risultato è la dilatazione dei tempi tra l'approvazione dei progetti e la concreta partenza dei percorsi formativi. In questo limbo temporale però a farne maggiormente le spese sono i ragazzi stessi che si trovano a vivere lunghi, e pericolosi, periodi di inattività. La domanda allora viene spontanea: è vero quello che c'è scritto nella brochure? «La Lombardia – continua il direttore Mele – ha creato un sistema molto interessante che si è evoluto nel tempo passando dal sistema delle convenzioni a quello dei progetti per approdare infine al sistema della dote. Quest'ultimo sistema premia le scuole di maggiore qualità perché ogni famiglia ha la possibilità di spendere questa dote, messa a disposizione dalla Regione, nell'Ente di formazione accreditato che preferisce». Un sistema che sembra essere vincente vista la percentuale elevatissima di ragazzi che trovano un'occupazione alla fine del percorso formativo: «Il 70% dei nostri ragazzi – afferma ancora Mele – trova lavoro nei primi sei mesi. La ragione di questo successo dipende credo da due fattori: da una parte c'è la qualità della formazione, perché i ragazzi acquisiscono competenze che li rendono più facilmente occupabili, dall'altra parte c'è una grande collaborazione con le circa 500 imprese che lavorano insieme alla scuola attraverso la coprogettazione e gli stage che durano dalle 8 alle 12 settimane e che vedono i ragazzi protagonisti in azienda dalla mattina al pomeriggio». C'è anche un po' di Sicilia alla “Oliver Twist”: Marianna Nicotra, catanese, insieme ai suoi allievi si occupa della promozione degli eventi e Giuseppe Sinatra, siracusano, insegna matematica al corso di falegnameria. «Non è soltanto una formazione tecnica quella che noi diamo – raccontano – ma è il frutto di una educazione che abbiamo ricevuto a partire proprio dall'esperienza delle famiglie di Cometa. Ogni allievo è guardato come un figlio; la mattina esce di casa per andare in un'altra casa e questo inevitabilmente porta a modificare la didattica perché l'allievo non è più oggetto di una ripetizione passiva ma una persona da accompagnare, attraverso anche l'insegnamento di tecniche e competenze specifiche, verso il compimento della propria umanità».

Pubblicato su La Sicilia lunedì 30 Marzo 2015