Abbruzzese, docente ordinario di Sociologia della religione
presso l’Università di Trento ed autore di numerose pubblicazioni su riviste
scientifiche e divulgative nazionali internazionali, non può che essere quello
di un uomo appassionato a quello che fa. Studioso dei processi di
ricomposizione sociale di reti e gruppi nella società contemporanea e di nuove
forme di aggregazione, ha recentemente pubblicato un saggio dal titolo singolare:
“Superare la cultura della rassegnazione”.
Professore, cos’è
questa “cultura della rassegnazione”?
«Rispondo in maniera diretta e magari anche un po’ brutale:
abbiamo fatto dei danni. Ci sono dei danni nella nostra cultura contemporanea,
in quella che possiamo chiamare la “cultura collettiva condivisa”, riassumibili
in un cinismo esteso; in una sorta di dimissioni generalizzate da qualsiasi
desiderio, da qualsiasi entusiasmo e in un esaurirsi della categoria della
possibilità in nome di un “realismo” che a forza di avvitarsi su se stesso,
sfocia in una dichiarazione di resa dinanzi all’esistenza. Abbiamo elaborato in
questi anni, lentamente ma inesorabilmente, una cultura della resa, le cui
vittime principali sono coloro che ancora non hanno una chiara collocazione
nella società e nel mondo del lavoro, cioè i giovani. È necessario combattere
questa cultura, pericolosissima, opponendole il diritto ad una passione per
l’esistenza, per la vita, per un progetto. Non si può ragionevolmente
prospettare un individuo che rinunci a sperare, che rinunci a costruire».
Quali sono, secondo
lei, le “contromisure” da adottare?
«Innanzitutto è importante che i giovani ereditino degli
Stati che siano in condizioni finanziarie sane. Naturalmente questo non basta;
bisogna che i giovani abbiano la possibilità di intraprendere dei percorsi di
formazione a tutti i livelli, dall’apprendistato fino alla ricerca, e che gli
Stati nazionali si facciano carico, magari non attraverso l’erogazione di
capitali finanziari che capisco essere oggi abbastanza difficile, ma attraverso
strutture di servizio che diano la possibilità di spostarsi ed alloggiare nelle
città sedi di università a costi contenuti. È necessario dunque che le
istituzioni non restino mute, perché se è vero che la scelta del proprio
percorso formativo ricade sulle spalle di chi la fa, è altrettanto vero che
esse devono fare in modo che la persona possa compiere il suo percorso senza
sentirsi sola e abbandonata a se stessa».
La solitudine cui
accennava in effetti sembra essere il nemico mortale del desiderio di
realizzazione perché alimenta atteggiamenti di rinuncia. Come se ne esce?
«La solitudine è la condizione più disumana che ci possa essere. Purtroppo
in questo senso l’Italia non è un paese per giovani perché da tempo abbiamo
rinunciato ad una cultura del desiderio ed abbiamo rifiutato la categoria della
possibilità: “Non si può fare” è il leit-motiv, ossessivo, che i nostri giovani
sono costretti a sentire ormai da troppo tempo. Sebastião Salgado, un grande
fotografo brasiliano, ebbe a dire una volta di aver visto la miseria in paesi
ricchissimi, perché miserabile è colui che non fa più parte di una comunità, è
isolato ed ha perso la speranza. Occorre invece riscoprire l’altro come fondamentale per la nostra esistenza. La
realizzazione di noi stessi passa infatti attraverso una rete di legami nella
quale gli altri costituiscono la stabilità di una relazione di cui ogni
desiderio ha bisogno per diventare progetto concreto di vita».
Pubblicato su La Sicilia martedì 31 gennaio 2012