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mercoledì 1 febbraio 2012

Abbruzzese: «I giovani abbandonino la cultura della rassegnazione»

Appassionato. Il primo pensiero che viene in mente sentendo parlare Salvatore
Abbruzzese, docente ordinario di Sociologia della religione presso l’Università di Trento ed autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche e divulgative nazionali internazionali, non può che essere quello di un uomo appassionato a quello che fa. Studioso dei processi di ricomposizione sociale di reti e gruppi nella società contemporanea e di nuove forme di aggregazione, ha recentemente pubblicato un saggio dal titolo singolare: “Superare la cultura della rassegnazione”.
Professore, cos’è questa “cultura della rassegnazione”?
«Rispondo in maniera diretta e magari anche un po’ brutale: abbiamo fatto dei danni. Ci sono dei danni nella nostra cultura contemporanea, in quella che possiamo chiamare la “cultura collettiva condivisa”, riassumibili in un cinismo esteso; in una sorta di dimissioni generalizzate da qualsiasi desiderio, da qualsiasi entusiasmo e in un esaurirsi della categoria della possibilità in nome di un “realismo” che a forza di avvitarsi su se stesso, sfocia in una dichiarazione di resa dinanzi all’esistenza. Abbiamo elaborato in questi anni, lentamente ma inesorabilmente, una cultura della resa, le cui vittime principali sono coloro che ancora non hanno una chiara collocazione nella società e nel mondo del lavoro, cioè i giovani. È necessario combattere questa cultura, pericolosissima, opponendole il diritto ad una passione per l’esistenza, per la vita, per un progetto. Non si può ragionevolmente prospettare un individuo che rinunci a sperare, che rinunci a costruire».
Quali sono, secondo lei, le “contromisure” da adottare?
«Innanzitutto è importante che i giovani ereditino degli Stati che siano in condizioni finanziarie sane. Naturalmente questo non basta; bisogna che i giovani abbiano la possibilità di intraprendere dei percorsi di formazione a tutti i livelli, dall’apprendistato fino alla ricerca, e che gli Stati nazionali si facciano carico, magari non attraverso l’erogazione di capitali finanziari che capisco essere oggi abbastanza difficile, ma attraverso strutture di servizio che diano la possibilità di spostarsi ed alloggiare nelle città sedi di università a costi contenuti. È necessario dunque che le istituzioni non restino mute, perché se è vero che la scelta del proprio percorso formativo ricade sulle spalle di chi la fa, è altrettanto vero che esse devono fare in modo che la persona possa compiere il suo percorso senza sentirsi sola e abbandonata a se stessa».
La solitudine cui accennava in effetti sembra essere il nemico mortale del desiderio di realizzazione perché alimenta atteggiamenti di rinuncia. Come se ne esce?
«La solitudine è la condizione più disumana che ci possa essere. Purtroppo in questo senso l’Italia non è un paese per giovani perché da tempo abbiamo rinunciato ad una cultura del desiderio ed abbiamo rifiutato la categoria della possibilità: “Non si può fare” è il leit-motiv, ossessivo, che i nostri giovani sono costretti a sentire ormai da troppo tempo. Sebastião Salgado, un grande fotografo brasiliano, ebbe a dire una volta di aver visto la miseria in paesi ricchissimi, perché miserabile è colui che non fa più parte di una comunità, è isolato ed ha perso la speranza. Occorre invece riscoprire l’altro come  fondamentale per la nostra esistenza. La realizzazione di noi stessi passa infatti attraverso una rete di legami nella quale gli altri costituiscono la stabilità di una relazione di cui ogni desiderio ha bisogno per diventare progetto concreto di vita».


Pubblicato su La Sicilia martedì 31 gennaio 2012