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lunedì 19 gennaio 2015

Se parlare di famiglia significa essere omofobi

I bambini non sono cose che possono diventare oggetto di compravendita, l'essere maschio o femmina non è uno stereotipo culturale ma una realtà (anche) biologicamente iscritta in noi stessi fin dai primi momenti del concepimento, affermare la diversità non è discriminazione ma pone le basi della convivenza reciproca, la famiglia, che è il motore e l'ancora di salvezza dell'Italia, oggi è bistrattata e relegata in un angolo dalla politica, il vero progresso è permettere alle lavoratrici di essere madri e non il contrario. Questo un po' il nocciolo di un convegno sulla famiglia svoltosi a Milano all'auditorium Testori nella sede della regione Lombardia. Un convegno, questo sulla famiglia, bollato dai grossi media sin da subito come convegno anti-gay nel quale sarebbero state sostenute tesi “omofobe ed oscurantiste” secondo cui gli omosessuali andrebbero curati perché malati. A nulla sono valse nei giorni scorsi le proteste e le dichiarazioni pubbliche dei relatori i quali hanno più volte ribadito di non aver mai affermato nulla del genere e che il loro unico interesse era di parlare della famiglia. La famiglia che, come ha ricordato il sociologo Massimo Introvigne, uno dei relatori, è «il motore del mondo e della storia. L'Italia – ha proseguito Introvigne – tiene grazie alla famiglia: al circolo vizioso del debito pubblico si contrappone il circolo virtuoso del credito privato. L'oro del XXI secolo non è né il petrolio, né il metallo giallo ma la famiglia». Mario Adinolfi, renziano della prima ora, fondatore del PD e direttore del quotidiano La Croce, ha denunciato gli effetti nefasti della “neolingua” attraverso la quale, non accettando più il fatto che ogni essere umano ha dei limiti che la natura stessa gli impone, si vuol far passare come cosa normale e legittima la “stepchild adoption”, secondo cui un bambino e una donna possono diventare cose, oggetti di vero e proprio commercio da parte di una coppia omosessuale e non. «Una norma – ha detto Adinolfi – come quella che adesso è in discussione al Senato, che consenta di avere il “paramatrimonio” e dunque la stepchild adoption, un vero e proprio meccanismo di compravendita di un bambino per me è inaccettabile». Ed ha ribadito che le persone non sono cose e che i bambini, che sono i soggetti più deboli, hanno diritto ad avere una mamma e un papà. «È un'affermazione banale questa – ha concluso Adinolfi – eppure siamo qui a doverla ribadire e a doverci difendere!». Costanza Miriano, giornalista e scrittrice ha rivendicato orgogliosamente di essere sessista nel senso, ha spiegato, «che le differenze sono una ricchezza e non un limite e che siamo cresciuti con un'idea distorta rispetto a quella che è la realtà. È falsa infatti la visione secondo cui la donna per realizzarsi deve fare carriera e poi dopo pensare alla maternità. Occorrerebbe invece permettere alle lavoratrici di poter essere madri anche se oggi purtroppo le famiglie non sono aiutate in nessun modo, anzi sembra che lo Stato oggi tuteli maggiormente le convivenze». All'esterno intanto, in un clima surreale, decine e decine di poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa presidiavano la zona per evitare disordini e incidenti. Ritornano alla mente le celeberrime parole del grande scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton quando più di cento anni fa scriveva che «fuochi verranno attizzati per dimostrare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate».

Pubblicato su La Sicilia lunedì 19 Gennaio 2015

mercoledì 7 gennaio 2015

Ciantia, il medico siciliano che ora "cura" i Paesi più poveri. "Tutto è partito in Uganda".

Dall'Uganda all'Expo 2015 di Milano; dalla cooperazione internazionale con una ONG italiana alla gestione di alcuni settori chiave dell'Esposizione universale, l'evento che, numeri alla mano, si preannuncia come uno dei più importanti a livello planetario in questo primo scorcio di XXI secolo. La storia di Filippo Ciantia, mamma catanese e papà di Piazza Armerina, si snoda lungo una fitta trama di incontri e di rapporti che lo hanno condotto, con moglie e figli al seguito, prima nel paese africano e poi, in maniera del tutto inaspettata, l'hanno catapultato a Milano per occuparsi dell'Esposizione universale. Abbiamo incontrato Ciantia nel quartier generale di Expo, alla periferia nord occidentale del capoluogo lombardo, nei pressi dell'area che tra qualche mese verrà visitata da milioni di persone di tutto il mondo.

Dottor Ciantia ci racconti la sua esperienza in Africa.
«Io sono medico di formazione, ho lavorato per ventinove anni in Uganda, anche se poi nel mio lavoro ho visitato abbastanza regolarmente i paesi vicini, Ruanda, Burundi, Sud Sudan, Est Congo. Ho iniziato a lavorare poi come medico nel nord dell'Uganda, in una zona molto povera e con conflitti molto importanti che sono durati a lungo. Per questo motivo, per motivi familiari e di sicurezza per me, mia moglie ed i miei figli, abbiamo dovuto spostarci a Kampala, la capitale, e da quando mi sono trasferito lì nel 1989 mi sono occupato maggiormente di programmi di cooperazione e di gestione pur mantenendo un forte legame con il settore socio sanitario».

Com'è successo che venisse chiamato a lavorare per l'Expo?
«In maniera piuttosto singolare nell'agosto 2008 ricevo una telefonata dall'allora sindaco di Milano Letizia Moratti che stranamente mi chiede se ero disponibile a lavorare alla preparazione dell'Esposizione universale occupandomi nello specifico dei paesi africani e in via di sviluppo. Successivamente si è svelato “l'arcano”, il motivo cioè per cui il sindaco fosse arrivato proprio a me. Nel periodo in cui sosteneva la candidatura di Milano come sede ospitante dell'Expo, la Moratti aveva incontrato il presidente dell'Uganda Yoweri Museveni il quale le aveva parlato molto bene di un'associazione, di nome Avsi, per la quale lavoravo e che in quel periodo dirigevo in Uganda. Moratti è rimasta molto colpita perché era la prima volta che una persona, e in special modo un presidente, le parlava così di un'organizzazione umanitaria italiana. Il Sindaco ha deciso quindi di chiamare gli uffici dell'Avsi lì in Uganda e mi ha proposto di venire a lavorare per l'Expo. Così, senza quasi sapere cosa fosse, sono arrivato nella Società organizzatrice nel luglio del 2009 e da allora mi sono interessato ai progetti di cooperazione dei Paesi in via di sviluppo occupandomi soprattutto del progetto di aiuto ai Paesi più poveri che non possono permettersi di costruire un padiglione o non possono allestirlo. Un programma di aiuto che è divenuto tradizionale da un po' di anni nelle esposizioni universali».

Lei è anche il responsabile dei cosiddetti “cluster” tematici. Può spiegare meglio di cosa si tratta?
«Nel 2009 si discuteva il piano generale per l'Expo 2015 e alla fine è emersa quella che secondo me è un'idea geniale: riproporre la pianta del “castrum”, l'accampamento romano, che ha dato l'impronta all'assetto viario di tante città italiane: due grandi assi perpendicolari, il cardo e il decumano, una grande via molto lunga, che ospiterà nei “cluster” i Paesi del mondo, e un'altra perpendicolare più corta, che ospiterà le regioni italiane. Si poneva a questo punto la questione di cosa poter offrire ai Paesi oltre al modello classico, stile fiera campionaria, dei lotti di terreno ceduti per la costruzione del proprio padiglione. È emersa pian piano l'idea di raggruppare i Paesi intorno ad un tema particolare. E qui l'altra grande intuizione è stata quella di puntare sul tema dell'Expo, “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, cioè sull'agricoltura, sulla nutrizione e sulla sostenibilità. Quindi anche il raggruppamento dei vari Paesi del mondo doveva avvenire secondo criteri tematici attinenti al grande tema. Siamo partiti con una quindicina di proposte ma alla fine dialogando con i Paesi e ricevendo anche le loro proposte, siamo arrivati ad individuare nove “cluster” tematici: spezie, riso, isole mare e cibo, frutta e legumi, caffè, cioccolato, cereali e tuberi, zone aride ed infine bio Mediterraneo. È nata così l'idea di realizzare un villaggio tematico, un villaggio nel quale ogni Paese avrà il suo spazio espositivo “privato” ma che avrà anche delle aree comuni, pubbliche, ristoranti, mostre, mercati, aree di spettacolo e di eventi. Il cluster sarà un villaggio vivo».

Il bio Mediterraneo è forse il “cluster” che, come siciliani, ci tocca più da vicino. Può raccontare com'è nata quest'idea?
«Il Commissario generale libanese Simon Jabbour, ci ha scritto un giorno dicendoci che non si poteva non fare un “cluster” dedicato al Mediterraneo. Dedicato però al bio Mediterraneo, ha sottolineato Jabbour, perché secondo lui il Mediterraneo va oltre una questione meramente geografica. Noi invece volevamo evitare di realizzare padiglioni globali e geografici cercando di farli invece più tematici ed individualizzati e per questo avevamo deciso di non trattare il Mediterraneo in quanto entità geografica. Jabbour ci ha invece mostrato come il Mediterraneo sia in realtà un messaggio, un incontro di civiltà, di cultura, di religioni, di continenti, quindi di ecosistemi, e soprattutto è il padre della dieta Mediterranea, un patrimonio dell'umanità. E la Sicilia ha deciso di interessarsi al bio Mediterraneo proprio perché è al centro di questo mare, un mare d'incontro e di dialogo. E poi, se siamo sinceri, la Sicilia è sempre stata un luogo d'incontro, un melting pot che passando dai Fenici, che portarono lì l'olivo dal Libano, arriva agli Arabi, ai Normanni... L'idea di questa Esposizione universale è proprio quella di promuovere l'agricoltura, la nutrizione sana, ma che nasce da un territorio ben preciso, un territorio che è portatore di cultura, di valori, di bellezza e di armonia. E nel “cluster” del Mediterraneo la Sicilia è davvero un simbolo!».

Pubblicato su La Sicilia sabato 29 Dicembre 2014