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sabato 22 dicembre 2012

Un'informazione "contaminata"

«Contenuti, credibilità, creatività, comunità, conversazione, condivisione. Sono queste le parole che descrivono quella che chiamerei la legge delle “sei c” senza la quale sarebbe impossibile pensare il giornalismo di oggi». Marco Bardazzi è caporedattore centrale e digital editor del quotidiano “La Stampa” e il suo lavoro consiste proprio nel coordinare i vari contenuti digitali del giornale integrandoli con quelli cartacei: una specie di “smistatore dei treni all’interno di una redazione”, per usare le sue stesse parole.
Può spiegare meglio in cosa consistono queste “sei c”?   
«Oggi quella che potremmo definire una redazione tradizionale presenta sostanzialmente tre punti di forza: l’attenzione per i contenuti, una solida base di credibilità e una buona dose di creatività. Queste qualità garantivano, e garantiscono tuttora, l’autorevolezza della redazione e di coloro che ne fanno parte. A queste tre caratteristiche è necessario però affiancare il contributo che, da dieci anni a questa parte ormai, la rete ci offre in termini di comunità, conversazione e condivisione. Credo però che occorra aggiungere un’altra “c” che le contenga tutte: contaminazione».
In che senso?
«Sono convinto che questa sia la parola chiave per comprendere quello che sta accadendo oggi nei giornali. I giornali hanno bisogno di “contaminarsi”, di aprirsi cioè a tutta una serie di realtà con cui prima non avrebbero lavorato. Se prima ad esempio, per preparare la copertura delle elezioni politiche ed ottenere i dati, gli interlocutori privilegiati erano la Rai, gli uffici stampa dei partiti, il Viminale, adesso si lavora con Google, Yahoo, Facebook, Twitter, con le “app” da scaricare sullo smartphone per vedere dove si svolge l’evento politico più interessante… È così che bisogna pensare il giornalismo oggi».
Eppure qualche giorno fa, il 15 dicembre, ha ufficialmente chiuso i battenti “The Daily”, il quotidiano on-line di Rupert Murdoch interamente pensato per i tablet. Cos’è che non ha funzionato secondo lei?
«Il “Daily” è morto perché la loro idea di sviluppare un giornalismo esclusivo per i tablet si è rivelata limitativa, in quanto il mondo dei tablet è stato ridotto ad una nicchia isolata che non dialoga con tutto il resto; è molto più interessante, ed anche più difficile, lavorare su un tipo di giornalismo “multipiattaforma” che, con uno stesso gruppo di professionisti, riesce ad essere presente sulla carta, sul tablet, sullo smartphone, sul pc. È il concetto di contaminazione cui accennavo prima che è venuto meno, anzi, nel caso del “Daily” non c’è mai stato».
Come vede il futuro dei  giornali di carta? Esisteranno ancora o verranno totalmente soppiantati dall’on-line?
«È inevitabile che la velocità e la facilità con cui si apprendono le notizie rendono il giornale cartaceo già “vecchio” la mattina stessa in cui lo si compra in edicola, perché nel frattempo il suo alter ego on-line avrà già fornito una serie di aggiornamenti in tempo reale; penso tuttavia che il quotidiano di carta riuscirà a resistere anche se dovrà ripensare profondamente il suo stesso ruolo: non ridire quello che è successo e che già si conosce, ma allargare lo sguardo, approfondire, offrire al pubblico dei lettori chiavi di lettura adeguate per decifrare i fatti accaduti».  


Pubblicato su La Sicilia giovedì 21 dicembre 2012

mercoledì 28 novembre 2012

Il popolo della Colletta sfida la crisi, nell'Isola ieri all'opera 18mila volontari

Le saracinesche dei supermercati si sono ormai abbassate ed anche quest’anno la Colletta alimentare numero 16 ha chiuso i battenti. Sapremo nei prossimi giorni se il 2012, l’annus horribilis della crisi, ha inciso negativamente anche su questo straordinario gesto di solidarietà, oppure, in barba alla crisi, si confermerà il trend in crescita degli anni precedenti. Nel frattempo però alcuni dati dimostrano che la sensibilità dei siciliani sulla questione è tutt’altro che in crisi: nella giornata di oggi gli oltre 18 mila volontari sparsi nei 1150 punti vendita della regione hanno incontrato quasi un milione di persone! E i detenuti di Piazza Lanza che stamane hanno partecipato alla Colletta hanno raccolto 16 scatole per un totale di 115 Kg di alimenti. Ma non è finita: a Catania moltissimi volontari dopo un’intensa giornata trascorsa a raccogliere, etichettare, pesare e chiudere scatole, sciamano verso il magazzino del Banco Alimentare preparandosi ad aiutare nelle operazioni di scarico e stoccaggio delle derrate che da lunedì saranno distribuite alle oltre 600 strutture caritative del territorio etneo. La notte della Colletta e forse è uno dei momenti più suggestivi dell’intera giornata: decine e decine di persone, tra cui moltissimi giovani, che invece di uscire fuori con gli amici per una birra o a mangiare la pizza (è pur sempre sabato sera…), decidono di trascorrere la serata, magari proprio insieme ai loro amici, in un magazzino a scaricare camion e riempire scaffali.  «Partecipiamo alla Colletta fin da quando eravamo piccoli – raccontano Federico ed Emanuele, entrambi studenti universitari – e aiutare chi ha bisogno ci rende più contenti di una serata in giro per locali probabilmente a non fare nulla; per questo ci rinunciamo volentieri». Gli fa eco Chiara, anche lei studentessa universitaria: «A prescindere dalla propria storia personale, tutti sono portati a fare il bene anche se questo ultimamente non basta. Sapere però che il mio bisogno è lo stesso di quello dell’altro ti mette addosso un gran desiderio di comunicarlo a tutti: da questo punto di vista la Colletta è straordinaria!». Antonio di mestiere fa l’insegnante e si può dire un “veterano” della Colletta alimentare: «Partecipo da sempre perché…mi fa bene. Mi ricorda il vero valore delle cose, del tempo e del denaro; mi aiuta a capire il senso più vero di tutto». «In fondo le persone che aiutiamo sono poche in percentuale, il nostro è un piccolo contributo – racconta Riccardo, studente liceale –, però io partecipo perché ne ho un guadagno personale; la Colletta è un gesto che educa alla carità e io sono cresciuto grazie ad essa, letteralmente, perché partecipo fin da quando avevo due anni, facevo la Colletta in braccio a mia madre». Elisabetta, da poco laureata in giurisprudenza, sottolinea che un gesto del genere in un periodo di crisi è fondamentale perché «la gratuità è il punto da cui si può ripartire». La scatola che porta sembra essere piuttosto pesante ma la sua faccia contenta è più eloquente di qualsiasi discorso! Al magazzino, la sera della Colletta si può incontrare anche un professore con i suoi alunni: «Quest’anno – racconta – c’è stata una grande partecipazione dei miei alunni. Mi ha sorpreso molto la sete di verità dei ragazzi, al di là delle loro sensibilità, per cui di fronte ad una proposta che riconoscono seria e vera la seguono, anche se si tratta di scaricare scatole da un camion. Un mio alunno mi ha addirittura detto che per lui la Colletta è un gesto di speranza…» La vittoria sulla crisi inizia anche dal magazzino catanese del Banco Alimentare.  


Pubblicato su La Sicilia domenica 25 novembre 2012 (foto di Silvia Gagliano)

martedì 28 agosto 2012

"Lo sguardo che mi fa vivere"


“Lei ha la Sla e io mi fermo qua”. È facile immaginare lo stato d’animo di un uomo a cui viene annunciata in modo così brutale quella che è praticamente una sentenza di morte; se quest’uomo poi è anche un medico si può capire come la notizia assuma il tono quasi grottesco della beffa. Ma è proprio questa frase che Mario Melazzini, oncologo di successo e direttore generale della Sanità della Regione Lombardia, si è sentito rivolgere nel gennaio 2003 quando apprende di essere affetto dalla sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa che compromette lentamente tutte le funzioni motorie, dall’uso degli arti superiori e inferiori, fino alla deglutizione, fonazione e respirazione. La prognosi è infausta: circa l’80% dei malati di Sla muoiono entro 3-5 anni dall’insorgere della malattia. «Quando in ospedale ho iniziato a trascinare il piede sinistro sul linoleum del corridoio – racconta Melazzini – pensavo di essere stressato e per “scaricarmi” un po’ ho pensato di inforcare la bici, il mio ansiolitico. Ma mi accorgevo di stancarmi prestissimo e certe volte mi addormentavo a tavola! Ho ritardato a sottopormi a degli esami forse per una paura inconscia, ma alla fine, con il sopraggiungere dei crampi ho dovuto accettare il consiglio di un amico neurologo di prenotare una biopsia all’istituto Besta di Milano: ero diventato un paziente». Melazzini per la prima volta si trova dall’altra parte della barricata; lunghe code agli sportelli, liste d’attesa per gli esami e, quel che è peggio, sperimenta tutta l’indifferenza del personale medico-sanitario. Un lungo calvario, in cui i problemi fisici aumentano progressivamente, culminato quel 17 gennaio di nove anni fa quando gli viene comunicata l’esatta natura del male: sclerosi laterale amiotrofica. «Mi trovavo a Padova quando ho appreso la diagnosi – dice ancora Melazzini – ed ero insieme a mia moglie. Ricordo che abbiamo fatto il tragitto per ritornare a Pavia senza dire nemmeno una parola». I primi mesi sono tremendi: il medico pavese accarezza per un attimo persino l’idea di un suicidio assistito e per questo prende contatto con la famigerata clinica svizzera “Dignitas” per avere informazioni. «Mi sono isolato per nove mesi da tutto e da tutti – prosegue – anche da mia moglie e dai miei figli, per rifugiarmi tra le montagne di Livigno, la mia seconda casa. Per me le montagne erano e sono tutto: guardarle dal basso verso l’alto con la consapevolezza che non avrei più potuto camminare, scalare o sciare, mi faceva una rabbia… Poi una mattina, affacciandomi per l’ennesima volta dalla solita finestra, ho riguardato le mie montagne. Questa volta senza collera, semplicemente ammirandone la bellezza». Per Melazzini è un nuovo inizio. Un nuovo inizio in cui la fatica e il dolore fisico non sono cancellati, anzi, ma la scoperta che tutto ha un senso fa la differenza. «Mi sono accorto – dice – che ciò che c’è è meraviglioso, e ci viene regalato. Noi apparteniamo a Qualcun altro ed è bellissimo esserci, è bellissimo esistere. Nessuna condizione di malattia può impedirci di scoprirlo». Dentro questa sofferenza per il medico lombardo si sono aperti incontri inaspettati, sguardi carichi di curiosità e attenzione. È questo il segreto: lo sguardo. Quello che uno ha verso le cose e quello che uno riceve ogni giorno da quelli che ci circondano. «Senza l’abbraccio di coloro che mi stanno vicino non potrei fare niente. È questo oggi il dramma di molti malati: essere lasciati soli ad affrontare le loro difficoltà e le loro sofferenze. Perfino il medico, a cui il paziente si consegna totalmente, spesso è a corto di parole, o peggio, di compassione, nel momento in cui deve riferire ad una persona una diagnosi infausta. Nella società attuale c’è purtroppo il concetto che, in certe condizioni, la vita diventi indegna di essere vissuta. Si tratta a mio modesto parere di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una situazione di fragilità, malattia, sofferenza. Il mio è un male inguaribile, ma non incurabile. Adesso è questo il mio obiettivo, come medico, come malato e come uomo: curare, essere d’aiuto ai miei pazienti e ai miei compagni di malattia in tutte le fasi del loro difficile percorso». Ma può davvero un malato di Sla essere felice trasmettere questa felicità agli altri? In fondo il dubbio che il dottor Melazzini sia un po’ visionario potrebbe sorgere… Bisognerebbe vederlo all’opera per rendersi conto se lui è quello che dice. Emmanuel Exitu, regista di origini bolognesi, ha raccolto questa sfida ed ha realizzato un film-documentario dal titolo “Io sono qui. La realtà è sempre positiva” nel quale viene raccontata la settimana-tipo del medico pavese: una settimana fatta di instancabile lavoro e rapporto con i pazienti, di nutrimento tramite PEG (gastrotomia percutanea) , di riposo con il ventilatore per supportare la respirazione. Exitu ammette che pensava di dover raccontare una malattia; «invece ho avuto davanti un uomo, ho raccontato non la storia di un malato ma quella di un uomo».

Pubblicato su La Sicilia domenica 26 agosto 2012

lunedì 27 agosto 2012

Alla scoperta dell'Albania, terra di libertà riconquistata e di acerba spiritualità


C’è un po’ d’Albania nel Bel Paese: più di cinquecentomila albanesi che, dopo i romeni, sono la seconda comunità straniera, hanno salde radici qui da noi. La stragrande maggioranza di essi provengono dal gigantesco flusso migratorio degli anni novanta, originato dagli stravolgimenti che l’Albania si trovava ad affrontare all’indomani del crollo del regime comunista che l’aveva lasciata in disastrose condizioni economiche e spirituali. Ma chi sono davvero gli albanesi? Troppo spesso infatti, nell’immaginario collettivo italico, alla parola “albanese” sono associati stereotipi legati ad aspetti negativi, deteriori e marginali della società. La storia dell’Albania, inoltre, è rimasta sepolta in un oblio pressoché totale sebbene essa sia legata a doppio filo con gli eventi che hanno portato alla costruzione dell’identità europea. Ma per guardare con verità e senza pregiudizi alla propria storia è necessario partire dalla verità della propria esistenza. È stato proprio questo il punto di partenza da cui ha preso le mosse la mostra, allestita al Meeting di Rimini in occasione dei cento anni dell’indipendenza, “Albania, Athleta Christi: Alle radici della libertà di un popolo”. I curatori hanno voluto sottolineare come l’incontro personale con il cristianesimo abbia risvegliato in loro quelle domande fondamentali che albergano nel cuore di ogni uomo, domande sul senso della vita e della morte, sulla felicità e sulla giustizia. Questioni che hanno fatto riaffiorare la grande domanda che costituisce il nerbo della storia millenaria del popolo cui appartengono: cosa vuol dire essere liberi davvero? La mostra fa vedere come quattrocento anni di dominio turco e cinquant’anni di feroce dittatura comunista hanno segnato pesantemente il volto di questa nazione e la libertà è stata da sempre un desiderio per cui molto si è combattuto e molto sangue è stato versato. Il contributo dei cattolici nel portare a compimento questo percorso tutt’altro che lineare è stato assolutamente decisivo. Fin dal XV secolo quando Giorgio Castriota Scandenberg, il condottiero considerato ancora oggi un vero e proprio mito dagli albanesi, sconfisse ripetutamente gli eserciti del sultano e venne per questo appellato da papa Paolo II “Athleta Christi”, passando per il XIX dove l’opera instancabile di francescani e gesuiti contribuì in maniera formidabile alla formazione dell’identità dell’Albania, fino a giungere alla brutale dittatura comunista di Enver Hoxha che perseguì scrupolosamente il progetto di eliminare, anche fisicamente, qualsiasi aderente ad una confessione religiosa con lo scopo di sostituire ad essa un “dio nuovo”: il Partito e il Capo del Partito. L’Albania di oggi vive una libertà mai sperimentata prima, ma è una libertà senza volto, ridotta all’assenza di vincoli e controlli. È in tale contesto che ci soccorre la testimonianza di Madre Teresa, «albanese di sangue», secondo cui la vera libertà risiede nella religiosità e negare il rapporto con Dio apre le porte ad ogni sorta di prevaricazione e violenza. È un messaggio che ripropone domande universali e va al cuore di ogni esperienza umana e per questo, in fondo, possiamo dirci tutti un po’ albanesi.

Pubblicato su La Sicilia sabato 25 agosto 2012

domenica 26 agosto 2012

Raccontare la verità senza veli né bavagli

«La verità è semplice ed è facile riconoscerla, perché ha uno splendore e parla da sola. Quando non parla è perché qualcuno le ha tappato la bocca». A partire da quest’affermazione di Antonio Preziosi, direttore di Radio Uno e Gr Rai, si sono confrontati davanti alla platea del Meeting di Rimini, altri due giornalisti alla guida di importanti testate: Roberto Napoletano, direttore del Sole 24Ore, e Marco Tarquinio, direttore di Avvenire. Il tema è appassionante, soprattutto per chi di mestiere fa il cronista: raccontare la realtà. «Questa è una bella cosa – ha sottolineato Tarquinio –, i giornali dovrebbero aiutare le persone ad aprire gli occhi, ad avere consapevolezza, perché la consapevolezza cambia il mondo, ma quello che spesso manca è un’onestà intellettuale che eviti, ad esempio, quella pigrizia strisciante di tanto giornalismo italiano che invece di fare inchieste per proprio conto diventa la cassa di risonanza delle procure». Invece, ha affermato Napoletano, bisogna essere disposti a “scavare, scavare, scavare”, per arrivare al fatto e alla notizia. Non si deve spacciare il verosimile per vero, come aveva detto qualche tempo fa il cardinale di Milano Angelo Scola incontrando i giornalisti lombardi, e per questo bisogna sempre essere rigorosi nella verifica delle fonti. «La realtà – ha proseguito Napoletano – cambia di giorno in giorno e raccontarla significa assumersi delle responsabilità nella scelta di temi, argomenti e titoli». Raccontare ad esempio la notizia per eccellenza di questi ultimi tempi, la crisi economica, senza dare nulla per scontato e senza chiudere gli occhi davanti alla realtà, implica in effetti scelte professionali impegnative. «Innanzitutto – ha ribadito Tarquinio – bisogna tener presente che la realtà è sempre un avvenimento, mai uguale a se stesso e che al centro della realtà ci sono uomini e donne in carne e ossa, persone precise, alle prese con i problemi e i drammi di tutti i giorni e non questioni astratte. Non bisogna perdere il rapporto tra il particolare ed il contesto, fra la totalità e il dato contingente, come amava dire don Giussani ai suoi amici giornalisti». «Il Gr Rai e Radio Uno – ha proseguito Preziosi – raccontano la crisi con l’occhio del radiocronista come se fosse “Tutto il calcio minuto per minuto”. La copertura è minuziosa, dettagliatissima, obiettiva. Perché se la crisi non la si racconta, la crisi non esiste e se non esiste la gente non la capisce e così diviene ancora più subdola». «Invece – ha detto infine Tarquinio – accanto a chi vuole spolpare l’Italia, alla disoccupazione, ai prezzi che crescono e allo spread che vola, ci sono un Paese solido, imprenditori che resistono, un’economia di comunità che ha fatto grande e bello il nostro Paese. Di tutto questo è necessario scrivere e raccontare».


Pubblicato su La Sicilia mercoledì 22 agosto 2012

mercoledì 18 luglio 2012

Scholz: "Gli imprenditori riscoprano il valore della solidarietà professionale"


«Se non si torna ad un’idea di popolo che ha una concezione positiva di sé, difficilmente qualcosa potrà cambiare». Sono nette e senza appello le parole che Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle Opere dal 2008, ha rivolto pochi giorni fa ad un gruppo di imprenditori siciliani. Questo annus horribilis sembra non finire più: solo nel primo semestre del 2012 ci sono stati oltre trenta suicidi di imprenditori che, a causa della crisi, non riuscivano più a mandare avanti le loro aziende. «La situazione è drammatica, sarebbe sciocco negarlo – ha affermato Scholz –, ma tutto questo può essere vissuto come qualcosa da subire oppure lo si affronta: l’errore più grave è però quello di pensare di cavarsela da soli». La solidarietà professionale in effetti è un valore che troppo spesso viene messo tra parentesi, così come si “dimentica” che il denaro è uno strumento, non il fine dell’azione imprenditoriale. «Abbiamo scisso l’economia dalla persona – ha insistito Scholz –, abbiamo scambiato il profitto per il bene primario ed è qui che sono cominciati i disastri. Le condizioni economiche sono divenute l’ago della bilancia su cui oscillano le imprese; se sono favorevoli, ci si attesta sulla buona congiuntura economica e non si cresce, se vanno male, l’imprenditore ha paura, non sa che passi fare e un imprenditore solo è molto più esposto al rischio di prendere una decisione sbagliata che può compromettere il futuro dell’azienda. È necessaria invece una “amicizia operativa”, una rinnovata capacità di condividere la vita a partire dalla quale ogni persona, quindi anche chi gestisce un’impresa, può crescere nelle sfide che si trova a vivere. Questo non significa abdicare alle proprie responsabilità anzi, al contrario, ciascuno è chiamato ad esprimere se stesso al meglio e coscientemente in ogni circostanza». Tutto molto bello se non fosse che gli imprenditori, specialmente al Sud, lamentano non l’assenza del “sistema paese” Italia, ma la sua aperta ostilità: il primo imputato è il carico fiscale iugulatorio con il quale le aziende devono misurarsi uscendone spesso drammaticamente sconfitte. «Conosco bene i problemi della pubblica amministrazione che si sommano purtroppo a questa congiuntura particolarmente sfavorevole – ha proseguito Scholz –, ma è proprio in questo momento, secondo me, che dobbiamo cambiare le nostre imprese, puntare all’internazionalizzazione attraverso la realizzazione di un network tra imprenditori. Su questo aspetto non ci sono manuali o ricette per creare una rete di aziende; certo esistono delle linee guida, ma tutto è affidato alla creatività ed alla passione dei singoli. Non bisogna avere paura delle difficoltà, è molto più preoccupante infatti lo smarrimento delle ragioni per cui vale la pena di fare una cosa. In questo momento ci sono chiesti dei sacrifici; ma il sacrificio è diverso dalla sofferenza.



Pubblicato su La Sicilia lunedì 16 luglio 2012

sabato 16 giugno 2012

L'uomo nella sua nudità e debolezza

Mai come in questi ultimi tempi voci si levano da più parti in favore della “dignità umana”. La si invoca contro la carneficina di innocenti in Siria, contro l’ondata tragica di suicidi che sta attanagliando l’Italia; la si chiama in causa parlando dei terremotati in Emilia Romagna o della situazione indecente in cui versano le carceri italiane… Questa espressione è entrata ormai nel nostro lessico abitudinario, con il risultato però che è divenuta quasi uno stereotipo, una specie di ricca ed elaborata cornice che racchiude tuttavia al suo interno una tela desolatamente bianca. Per Gabriel Marcel, filosofo e drammaturgo francese vissuto nel secolo scorso, invece il valore della persona umana era tutt’altro che una mera decorazione, un intercalare linguistico. Ne “La dignità umana e le sue radici esistenziali”, recentemente pubblicata in una nuova edizione italiana curata da Enrico Piscione, appassionato studioso del pensiero marceliano, il filosofo parigino rivela proprio come al di là di qualsiasi intellettualismo, fondato su una ragione divenuta oramai il criterio per misurare ogni cosa, la dignità umana si scopre nel momento in cui si riconosce l’uomo nella sua nudità e debolezza, dunque nel volto del bambino, del vecchio e del misero. «Lo specifico di un soggetto – scriveva Marcel – […] è che non si lascia ridurre ad una somma di elementi. Un essere umano si pone al di là di tutte le possibili ricerche di cui potrebbero farlo oggetto, per esempio, lo psicologo o il sociologo». L’intento del pensatore francese è dunque quello di non rassegnarsi a vedere ridotto l’uomo ad un fascio di funzioni e per questo vuole scavare nell’animo umano, senza tralasciare o censurare nulla, per andare alla radice di quel mal-être, di quel disagio interiore, acuito  bin maggior misura dalla incapacità a rintracciare un bene soddisfacente e durevole per la propria vita, una caratteristica che sembra descrivere a perfezione l’uomo moderno e che Marcel conosceva bene perché sperimentata personalmente, che rende insostenibile l’esistenza. Accostandosi a questo scritto, che raccoglie una serie di lezioni che il filosofo francese tenne all’università di Harvard tra l’ottobre e il dicembre del 1961, occorre tenere ben presente l’elemento “teatrale” che ne costituisce, insieme all’elemento filosofico, il fil rouge. In esso non è narrato appena un itinerario speculativo, ma il cammino personale che aveva condotto l’autore ad abbracciare la fede cattolica nel 1929. La scoperta che ogni persona è insostituibile, anzi è l’insostituibile per antonomasia in quanto imago Dei, schiude le porte alla vera dignità umana che, in quanto tale, non abbandona l’uomo ad una solitudine autoreferenziale, ma lo apre alla fraternità, all’abbraccio dell’altro, di colui che è il mio prossimo. 



Pubblicato su La Sicilia mercoledì 13 giugno 2012

martedì 8 maggio 2012

Crossing-over tra editoria digitale e giornalismo

La crisi della carta stampata da qualche tempo ormai non è più solo una verità bisbigliata a mezza voce tra gli addetti ai lavori ma una realtà che assume ogni giorno contorni sempre più allarmanti, specie fra i giornali. Una delle più note contromisure adottate dalle varie testate per rallentare questo declino è stata quella di cavalcare l’onda lunga del web creando una sorta di alter ego digitali dei giornali cartacei, il cui punto di forza consiste nella possibilità di avere un aggiornamento costante dei fatti che avvengono in Italia e nel mondo. Si è puntato inoltre a un maggiore coinvolgimento dei lettori offrendo loro l’opportunità di commentare gli articoli inseriti creando così intorno al pezzo una sorta di community virtuale in cui interagiscono sia i lettori, sia il giornalista. Ma le nuove tecnologie sembrano venire ulteriormente in soccorso dei giornali: ampliando la loro offerta editoriale, numerose testate stanno infatti valorizzando al meglio la propria produzione giornalistica attraverso la diffusione di ebook e instant book. Questi ultimi sono libri prodotti e assemblati nelle redazioni dei giornali, anche nel giro di sei ore, su temi di estrema attualità che meritano di essere studiati a fondo. Il principio ispiratore è semplice: di fronte al rincorrersi frenetico delle notizie in tempo reale è necessario uno spazio di approfondimento e riflessione e, in questo senso, il libro è lo strumento più utile. L’esperimento di allegare al giornale di carta (o alla sua versione digitale) un ebook sembra essere stato accolto benissimo dai lettori che, ad un prezzo irrisorio, hanno potuto “scaricare” i libri, con un risparmio anche dell’80% rispetto al prezzo di copertina del cartaceo. Una sorta di “crossing-over” tra editoria digitale e giornalismo che gioverà tanto ai gruppi editoriali, che allargheranno così il loro business, quanto ai lettori, che avranno a disposizione un prodotto di grande qualità e in linea con le più moderne tecnologie.


Pubblicato su La Sicilia lunedì 7 maggio 2012

lunedì 7 maggio 2012

Il "giornalista 3.0" e la credibilità delle fonti

Il metodo con cui oggi si conduce un’inchiesta giornalistica è mutato radicalmente anche solo rispetto ad una decina di anni fa. L’uso massiccio della rete e i social media, Twitter e Facebook sopra tutti, hanno letteralmente rivoluzionato il lavoro del giornalista che oramai non può più prescindere dalla collaborazione con blogger e citizen journalist, utilizzati come fonti, per giungere alla verità della propria indagine. Questo modo di procedere “open” suscita tuttavia numerosi interrogativi tra gli addetti ai lavori: ci si chiede innanzitutto se sia possibile produrre un’inchiesta di qualità puntando sull’interazione tra una comunità di utenti e dei giornalisti qualificati. In secondo luogo si pone il problema, fondamentale, della credibilità delle fonti e della verificabilità della notizia. Paul Lewis, giornalista britannico del “The Guardian”, famoso per le numerose inchieste che gli hanno valso il premio di “Reporter of the Year” nel 2010, sostiene che sì, ormai è fondamentale l’ausilio del web, ma che occorre anche incontrare la persona che si cela dietro un nickname, parlare con lei e verificare se quello che dice corrisponde o meno alla realtà. «La verifica delle fonti – ha recentemente dichiarato – io la faccio guardando le persone negli occhi, e comunque è sempre meglio essere presenti agli eventi, vedere con i propri occhi, che affidarsi alle centoquaranta battute di un tweet». L’interazione tra citizen journalists, social media e professionisti dell’informazione sarà dunque tanto più proficua quanto più definiti saranno i compiti che ciascuno dovrà svolgere senza sconfinamenti o invasioni di campo: ai primi spetterà sempre più il compito di raccogliere le notizie; il filtraggio, la contestualizzazione e l’interpretazione della mole enorme di materiale raccolto dovrà invece spettare ai giornalisti. Il rischio altrimenti sarà quello di barattare un’informazione seria semplicemente con una serie di notizie sfilacciate e senza nessi.


Pubblicato su La Sicilia sabato 5 maggio 2012

venerdì 4 maggio 2012

Il giornalismo d'inchiesta prodotto dal basso

Circa due settimane fa ha suscitato grande scalpore e indignazione la foto scattata dal regista Francesco Sperandeo sul volo Roma-Tunisi, che ritraeva un uomo con del nastro adesivo da imballaggio sulla bocca guardato a vista da un agente di polizia in borghese. L’immagine è stata postata sul profilo Facebook di Sperandeo e, in brevissimo tempo, ha fatto il giro della rete venendo ripresa poi il giorno dopo su tutti i giornali. Il film-maker ha poi corredato la foto con una didascalia in cui spiegava che l’uomo con lo scotch sulla bocca era un tunisino che stava per essere forzosamente rimpatriato dalle forze dell’ordine, che sull’aereo c’era un altro uomo che stava subendo lo stesso trattamento… Quello che ha fatto Sperandeo è un classico esempio di “citizen journalism”, di giornalismo partecipativo “dal basso”, in cui un privato cittadino, testimone di un fatto che riveste una certa importanza o gravità, attraverso un cellulare, un i-pad, una fotocamera digitale o un altro apparecchio elettronico, riprende la scena, la pubblica su Facebook, Twitter o sul blog personale, ottenendo così uno scoop in anteprima assoluta. L’episodio del volo Roma-Tunisi è una ulteriore prova del rapporto inscindibile che lega ormai la tecnologia digitale e i social network con i citizen journalists e i giornalisti professionisti, e chi si occupa per mestiere di informazione sa quanto sia divenuto indispensabile, l’apporto proveniente dal mondo dei blogger e dei social media. I problemi, le domande che questo sodalizio pone al giornalista di professione sono semmai altre: la fonte “digitale” che fornisce la notizia è attendibile? In che modo la si può verificare? Qual è il ruolo del professionista dell’informazione? Un caso simile a quello documentato da Sperandeo può aiutare a rispondere a queste domande: il 12 ottobre del 2010 Jimmy Mubenga, un cittadino angolano residente da molto tempo in Inghilterra con la sua famiglia, in seguito ad una irregolarità del permesso di soggiorno viene accompagnato sul volo 77 della British Airways in partenza da Londra verso Luanda per essere rimpatriato. Ma Mubenga muore. La notizia ufficiale era che, arrivato in precarie condizioni di salute in aeroporto, si era aggravato e, trasportato in ospedale, poco dopo era deceduto. Le circostanze della sua morte non convincono però Paul Lewis, giornalista del “Guardian”, che non potendo più verificare direttamente i fatti perché l’aereo nel frattempo era decollato, attraverso Twitter chiede di essere contattato da qualche passeggero del volo 77 che avesse visto come erano andate realmente le cose. Kevin Wallis, un ingegnere che si trovava sull’aereo seduto nella stessa fila di Mubenga dall’altra parte del corridoio e che aveva visto tutto risponde al tweet di Lewis: da quella testimonianza e da quella di altre quattro persone, recuperate da migliaia di kilometri di distanza grazie all’uso di un social network, il giornalista del Guardian ricostruisce la verità dei fatti e pubblica sul suo giornale i risultati dell’inchiesta. Per verificare la credibilità dei testimoni, non potendo parlarci direttamente, ha consultato la lista dei passeggeri a bordo del volo 77, oltre a porre alcune domande specifiche ai testimoni, ad esempio di che colore fossero i seggiolini o la moquette del corridoio. Una nuova frontiera del giornalismo d’inchiesta è stata raggiunta.


Pubblicato su La Sicilia venerdì 4 maggio 2012

giovedì 19 aprile 2012

Un giovane cavaliere fra sangue e congiure

Anno di Grazia 1133, monastero di Astino, situato nella valle omonima a ridosso della zona occidentale della città di Bergamo. È in questa cornice che si svolge la vicenda di Folco dei Lamberti e degli altri personaggi usciti dalla penna di Francesco Fadigati, giovane docente di lettere ed appassionato, fin dagli anni universitari, di storia e letteratura medioevale. Con “La congiura delle torri”, Fadigati entra di diritto nel mondo dei “romanzieri storici”, di coloro cioè che vogliono raccontare una storia rimanendo tuttavia fedeli al dato autentico del passato. Il Medioevo in effetti è un periodo che “tira” molto, basti pensare ai numerosi titoli che affollano gli scaffali delle librerie, senza contare un numero cospicuo di videogame oggi in circolazione, tutti accomunati dall’ambientazione nell’età di mezzo. Troppo spesso però viene restituita un’immagine sfocata di quell’epoca se non, in alcuni casi, brutalmente mistificata: il Medioevo come periodo oscuro, eslege, violento, bigotto; oppure il Medioevo come una sorta di epoca d’oro, in cui i valori dell’amore, della cavalleria, dell’onestà e dell’obbedienza sono talmente esasperati da rasentare il “fantasy”. Fadigati offre un valido punto di vista alternativo: la trama del suo romanzo poggia infatti su robusti dati storici offrendo quindi un’immagine persuasiva non solo della Bergamo medioevale, ma anche del contesto europeo del XII secolo all’interno del quale la vicenda si svolge. È possibile così seguire le imprese del giovane cavaliere protagonista della storia, insieme a quelle dei suoi compagni d’armi, le feroci lotte intestine che in quel periodo insanguinavano i comuni, le congiure che venivano ordite, inserite nel più ampio contesto della dialettica che vedeva protagonisti il Papa e l’Imperatore all’indomani del Concordato di Worms ed a cui ciascuno guardava come punti di riferimento per la propria vita. Emerge, scorrendo avidamente le pagine del romanzo, un Medioevo “genuino”, lontano tanto dall’idea di epoca “buia”, quanto da quella edulcorata, ma parimenti falsa, di epoca felice; un Medioevo in cui domina un’idea di fondo, un’idea che l’epoca moderna ha tragicamente sradicato via da sé: che l’uomo è rapporto con Dio e dunque tutto, mangiare e bere, vegliare o dormire, vivere o morire, amare, lottare, lavorare è in funzione di questo rapporto costitutivo.


Pubblicato su La Sicilia lunedì 16 aprile 2012

mercoledì 1 febbraio 2012

Abbruzzese: «I giovani abbandonino la cultura della rassegnazione»

Appassionato. Il primo pensiero che viene in mente sentendo parlare Salvatore
Abbruzzese, docente ordinario di Sociologia della religione presso l’Università di Trento ed autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche e divulgative nazionali internazionali, non può che essere quello di un uomo appassionato a quello che fa. Studioso dei processi di ricomposizione sociale di reti e gruppi nella società contemporanea e di nuove forme di aggregazione, ha recentemente pubblicato un saggio dal titolo singolare: “Superare la cultura della rassegnazione”.
Professore, cos’è questa “cultura della rassegnazione”?
«Rispondo in maniera diretta e magari anche un po’ brutale: abbiamo fatto dei danni. Ci sono dei danni nella nostra cultura contemporanea, in quella che possiamo chiamare la “cultura collettiva condivisa”, riassumibili in un cinismo esteso; in una sorta di dimissioni generalizzate da qualsiasi desiderio, da qualsiasi entusiasmo e in un esaurirsi della categoria della possibilità in nome di un “realismo” che a forza di avvitarsi su se stesso, sfocia in una dichiarazione di resa dinanzi all’esistenza. Abbiamo elaborato in questi anni, lentamente ma inesorabilmente, una cultura della resa, le cui vittime principali sono coloro che ancora non hanno una chiara collocazione nella società e nel mondo del lavoro, cioè i giovani. È necessario combattere questa cultura, pericolosissima, opponendole il diritto ad una passione per l’esistenza, per la vita, per un progetto. Non si può ragionevolmente prospettare un individuo che rinunci a sperare, che rinunci a costruire».
Quali sono, secondo lei, le “contromisure” da adottare?
«Innanzitutto è importante che i giovani ereditino degli Stati che siano in condizioni finanziarie sane. Naturalmente questo non basta; bisogna che i giovani abbiano la possibilità di intraprendere dei percorsi di formazione a tutti i livelli, dall’apprendistato fino alla ricerca, e che gli Stati nazionali si facciano carico, magari non attraverso l’erogazione di capitali finanziari che capisco essere oggi abbastanza difficile, ma attraverso strutture di servizio che diano la possibilità di spostarsi ed alloggiare nelle città sedi di università a costi contenuti. È necessario dunque che le istituzioni non restino mute, perché se è vero che la scelta del proprio percorso formativo ricade sulle spalle di chi la fa, è altrettanto vero che esse devono fare in modo che la persona possa compiere il suo percorso senza sentirsi sola e abbandonata a se stessa».
La solitudine cui accennava in effetti sembra essere il nemico mortale del desiderio di realizzazione perché alimenta atteggiamenti di rinuncia. Come se ne esce?
«La solitudine è la condizione più disumana che ci possa essere. Purtroppo in questo senso l’Italia non è un paese per giovani perché da tempo abbiamo rinunciato ad una cultura del desiderio ed abbiamo rifiutato la categoria della possibilità: “Non si può fare” è il leit-motiv, ossessivo, che i nostri giovani sono costretti a sentire ormai da troppo tempo. Sebastião Salgado, un grande fotografo brasiliano, ebbe a dire una volta di aver visto la miseria in paesi ricchissimi, perché miserabile è colui che non fa più parte di una comunità, è isolato ed ha perso la speranza. Occorre invece riscoprire l’altro come  fondamentale per la nostra esistenza. La realizzazione di noi stessi passa infatti attraverso una rete di legami nella quale gli altri costituiscono la stabilità di una relazione di cui ogni desiderio ha bisogno per diventare progetto concreto di vita».


Pubblicato su La Sicilia martedì 31 gennaio 2012

mercoledì 18 gennaio 2012

Dopo Gutenberg, l'e-book. Attese e problemi

Se l’e-book sia il futuro del libro forse è ancora troppo presto per dirlo. Non tutti infatti sono disposti a rinunciare al buon vecchio libro di carta, al crepitio delle pagine mentre vengono sfogliate, all’odore pungente della carta fresca di stampa od a quello un po’ mucido e stantio della carta antica, a favore di un dispositivo elettronico, sofisticatissimo, ma forse troppo asettico ed “anaffettivo”. La questione tuttavia non pone un dilemma solo alla moltitudine dei lettori ma anche, e soprattutto, alle case editrici che con questa nuova tecnologia devono necessariamente fare i conti. Nel Sud Italia, che registra gli indici di lettura più bassi d’Europa, un giovane editore calabrese, Giuseppe Meligrana, ha deciso di raccogliere la sfida dell’e-book e di investire cospicuamente in un settore che molti suoi colleghi considerano ancora “non incoraggiante”. «La difficoltà maggiore che ho incontrato – racconta – è legata alla scarsa diffusione qui da noi dei dispositivi elettronici che permettono la lettura dell’e-book, i cosiddetti e-reader, ed anche una titubanza, se non una aperta diffidenza, verso l’acquisto del libro digitale. Io però sono convinto che, dopo qualche anno di coesistenza, l’e-book soppianterà definitivamente il libro cartaceo che diventerà un prodotto di nicchia soprattutto a causa degli alti costi di realizzazione. Gli esperti fissano al 2018 la data in cui si completerà il passaggio dal cartaceo al digitale: credo invece che ciò accadrà due o tre anni prima. La diffusione degli e-book – prosegue – rappresenta un’occasione imperdibile per il Mezzogiorno perché anche una piccola casa editrice “periferica” grazie al supporto digitale ed al web può mantenere i contatti con un autore, magari di una certa caratura, che risiede a centinaia di chilometri di distanza. Non solo, i libri elettronici acquistati sul web potrebbero favorire un innalzamento dell’indice di lettura invertendo così il trend negativo che caratterizza le nostre zone, perché annullerebbero di fatto le differenze fra Nord e Sud rendendo ugualmente accessibile un medesimo prodotto editoriale tanto ad un lettore del Trentino, quanto ad uno della Sicilia». Paolo Falzea, editore di Reggio Calabria, nonostante ammetta che quella dell’e-book è «una rivoluzione inarrestabile che sarebbe folle non prendere in considerazione» e che «i costi di produzione si abbatterebbero anche dell’80%», sottolinea che ci sono alcuni aspetti tecnico-normativi da definire il primo dei quali riguarda il “self-publishing”e cioè la pratica secondo la quale l’autore, saltando a piè pari la casa editrice, promuove e vende la sua opera in digitale su un sito creato da lui stesso. «Inoltre – dice – non rinuncerei mai al piacere di addormentarmi lasciando scivolare sul pavimento il libro che sto leggendo. Ma con in mano un e-reader da 400 euro, come mai potrei fare?»


Pubblicato su La Sicilia sabato 26 novembre 2011