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martedì 8 maggio 2012

Crossing-over tra editoria digitale e giornalismo

La crisi della carta stampata da qualche tempo ormai non è più solo una verità bisbigliata a mezza voce tra gli addetti ai lavori ma una realtà che assume ogni giorno contorni sempre più allarmanti, specie fra i giornali. Una delle più note contromisure adottate dalle varie testate per rallentare questo declino è stata quella di cavalcare l’onda lunga del web creando una sorta di alter ego digitali dei giornali cartacei, il cui punto di forza consiste nella possibilità di avere un aggiornamento costante dei fatti che avvengono in Italia e nel mondo. Si è puntato inoltre a un maggiore coinvolgimento dei lettori offrendo loro l’opportunità di commentare gli articoli inseriti creando così intorno al pezzo una sorta di community virtuale in cui interagiscono sia i lettori, sia il giornalista. Ma le nuove tecnologie sembrano venire ulteriormente in soccorso dei giornali: ampliando la loro offerta editoriale, numerose testate stanno infatti valorizzando al meglio la propria produzione giornalistica attraverso la diffusione di ebook e instant book. Questi ultimi sono libri prodotti e assemblati nelle redazioni dei giornali, anche nel giro di sei ore, su temi di estrema attualità che meritano di essere studiati a fondo. Il principio ispiratore è semplice: di fronte al rincorrersi frenetico delle notizie in tempo reale è necessario uno spazio di approfondimento e riflessione e, in questo senso, il libro è lo strumento più utile. L’esperimento di allegare al giornale di carta (o alla sua versione digitale) un ebook sembra essere stato accolto benissimo dai lettori che, ad un prezzo irrisorio, hanno potuto “scaricare” i libri, con un risparmio anche dell’80% rispetto al prezzo di copertina del cartaceo. Una sorta di “crossing-over” tra editoria digitale e giornalismo che gioverà tanto ai gruppi editoriali, che allargheranno così il loro business, quanto ai lettori, che avranno a disposizione un prodotto di grande qualità e in linea con le più moderne tecnologie.


Pubblicato su La Sicilia lunedì 7 maggio 2012

lunedì 7 maggio 2012

Il "giornalista 3.0" e la credibilità delle fonti

Il metodo con cui oggi si conduce un’inchiesta giornalistica è mutato radicalmente anche solo rispetto ad una decina di anni fa. L’uso massiccio della rete e i social media, Twitter e Facebook sopra tutti, hanno letteralmente rivoluzionato il lavoro del giornalista che oramai non può più prescindere dalla collaborazione con blogger e citizen journalist, utilizzati come fonti, per giungere alla verità della propria indagine. Questo modo di procedere “open” suscita tuttavia numerosi interrogativi tra gli addetti ai lavori: ci si chiede innanzitutto se sia possibile produrre un’inchiesta di qualità puntando sull’interazione tra una comunità di utenti e dei giornalisti qualificati. In secondo luogo si pone il problema, fondamentale, della credibilità delle fonti e della verificabilità della notizia. Paul Lewis, giornalista britannico del “The Guardian”, famoso per le numerose inchieste che gli hanno valso il premio di “Reporter of the Year” nel 2010, sostiene che sì, ormai è fondamentale l’ausilio del web, ma che occorre anche incontrare la persona che si cela dietro un nickname, parlare con lei e verificare se quello che dice corrisponde o meno alla realtà. «La verifica delle fonti – ha recentemente dichiarato – io la faccio guardando le persone negli occhi, e comunque è sempre meglio essere presenti agli eventi, vedere con i propri occhi, che affidarsi alle centoquaranta battute di un tweet». L’interazione tra citizen journalists, social media e professionisti dell’informazione sarà dunque tanto più proficua quanto più definiti saranno i compiti che ciascuno dovrà svolgere senza sconfinamenti o invasioni di campo: ai primi spetterà sempre più il compito di raccogliere le notizie; il filtraggio, la contestualizzazione e l’interpretazione della mole enorme di materiale raccolto dovrà invece spettare ai giornalisti. Il rischio altrimenti sarà quello di barattare un’informazione seria semplicemente con una serie di notizie sfilacciate e senza nessi.


Pubblicato su La Sicilia sabato 5 maggio 2012

venerdì 4 maggio 2012

Il giornalismo d'inchiesta prodotto dal basso

Circa due settimane fa ha suscitato grande scalpore e indignazione la foto scattata dal regista Francesco Sperandeo sul volo Roma-Tunisi, che ritraeva un uomo con del nastro adesivo da imballaggio sulla bocca guardato a vista da un agente di polizia in borghese. L’immagine è stata postata sul profilo Facebook di Sperandeo e, in brevissimo tempo, ha fatto il giro della rete venendo ripresa poi il giorno dopo su tutti i giornali. Il film-maker ha poi corredato la foto con una didascalia in cui spiegava che l’uomo con lo scotch sulla bocca era un tunisino che stava per essere forzosamente rimpatriato dalle forze dell’ordine, che sull’aereo c’era un altro uomo che stava subendo lo stesso trattamento… Quello che ha fatto Sperandeo è un classico esempio di “citizen journalism”, di giornalismo partecipativo “dal basso”, in cui un privato cittadino, testimone di un fatto che riveste una certa importanza o gravità, attraverso un cellulare, un i-pad, una fotocamera digitale o un altro apparecchio elettronico, riprende la scena, la pubblica su Facebook, Twitter o sul blog personale, ottenendo così uno scoop in anteprima assoluta. L’episodio del volo Roma-Tunisi è una ulteriore prova del rapporto inscindibile che lega ormai la tecnologia digitale e i social network con i citizen journalists e i giornalisti professionisti, e chi si occupa per mestiere di informazione sa quanto sia divenuto indispensabile, l’apporto proveniente dal mondo dei blogger e dei social media. I problemi, le domande che questo sodalizio pone al giornalista di professione sono semmai altre: la fonte “digitale” che fornisce la notizia è attendibile? In che modo la si può verificare? Qual è il ruolo del professionista dell’informazione? Un caso simile a quello documentato da Sperandeo può aiutare a rispondere a queste domande: il 12 ottobre del 2010 Jimmy Mubenga, un cittadino angolano residente da molto tempo in Inghilterra con la sua famiglia, in seguito ad una irregolarità del permesso di soggiorno viene accompagnato sul volo 77 della British Airways in partenza da Londra verso Luanda per essere rimpatriato. Ma Mubenga muore. La notizia ufficiale era che, arrivato in precarie condizioni di salute in aeroporto, si era aggravato e, trasportato in ospedale, poco dopo era deceduto. Le circostanze della sua morte non convincono però Paul Lewis, giornalista del “Guardian”, che non potendo più verificare direttamente i fatti perché l’aereo nel frattempo era decollato, attraverso Twitter chiede di essere contattato da qualche passeggero del volo 77 che avesse visto come erano andate realmente le cose. Kevin Wallis, un ingegnere che si trovava sull’aereo seduto nella stessa fila di Mubenga dall’altra parte del corridoio e che aveva visto tutto risponde al tweet di Lewis: da quella testimonianza e da quella di altre quattro persone, recuperate da migliaia di kilometri di distanza grazie all’uso di un social network, il giornalista del Guardian ricostruisce la verità dei fatti e pubblica sul suo giornale i risultati dell’inchiesta. Per verificare la credibilità dei testimoni, non potendo parlarci direttamente, ha consultato la lista dei passeggeri a bordo del volo 77, oltre a porre alcune domande specifiche ai testimoni, ad esempio di che colore fossero i seggiolini o la moquette del corridoio. Una nuova frontiera del giornalismo d’inchiesta è stata raggiunta.


Pubblicato su La Sicilia venerdì 4 maggio 2012