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martedì 12 maggio 2015

Dal Congo a Lampedusa stipati su un barcone per una vita normale

[foto Social Channel]
Evelyne e Peter hanno attraversato il mare quattro anni fa. Anche loro stipati peggio delle bestie, corpi appiccicati a corpi, impossibilitati perfino a compiere il più piccolo movimento, sopra uno di quei relitti che gli “smuggler”, i biechi trafficanti di esseri umani, si ostinano ad usare come traghetti per alimentare i loro milionari affari di morte. Ma loro ce l'hanno fatta. Evelyne e Peter sono partiti dalla Repubblica Democratica del Congo, hanno percorso quasi 7000 kilometri, risalendo praticamente mezzo continente africano, prima di imbarcarsi dalle coste libiche alla volta dell'Italia. Fa un certo effetto incontrare oggi Evelyne in una tiepida ed assolata mattina di primavera in un caffè nel centro di Monza a pochi passi dal Duomo. Suo marito Peter è al lavoro e lei può dedicarmi solo poco tempo perché poi deve andare a prendere le sue due bambine all'asilo. Una ordinarietà della vita impensabile, e probabilmente insperata, fino a poco tempo fa.

Evelyne cosa vi ha spinto a lasciare il Congo?
«Ci sono stati diversi motivi per i quali nel 2010 abbiamo deciso di partire, alcuni sono personali ma altri sono legati al fatto che lì ormai non si stava più bene e la situazione politica era molto instabile e tendeva progressivamente a degenerare. Così ci siamo imbarcati su un mercantile e abbiamo risalito il fiume Congo con l'idea, almeno all'inizio, di raggiungere un'altra provincia del nostro Paese che fosse più tranquilla, nella quale si potesse vivere e lavorare. Non è andata però come speravamo. Io sono nata e cresciuta a Kinshasa, la capitale del Congo, e questa cosa ha creato una sorta di diffidenza tra noi e la gente del posto. Inoltre la zona non era così sicura come si pensava per cui abbiamo deciso di spostarci in un altro villaggio ma le condizioni di vita erano lontanissime da quelle a cui eravamo abituati».

E quindi siete ripartiti?
«Eravamo vicini al confine con la Repubblica Centrafricana e abbiamo deciso di spostarci lì. Erano gli ultimi mesi del 2010, si stavano preparando le elezioni politiche e presidenziali del 2011 e il popolo temeva che ci sarebbe stata ancora una volta una guerra dopo le elezioni, la situazione era drammatica. Siamo ripartiti. Viaggiando un po' a piedi e un po' chiedendo passaggi ai camion diretti a Nord siamo arrivati in Ciad. Non ci eravamo mai confrontati con una cultura islamica così forte e radicata, in Congo il 97% della popolazione è cristiana, e l'impatto è stato traumatico, almeno per me. Ero obbligata ad indossare il velo e ad osservare una serie di norme a cui non ero per nulla abituata. Per mio marito era abbastanza semplice la vita ma per me era molto, molto difficile. Avevamo sentito dire che in Libia c'erano buone opportunità di lavoro per cui, ancora una volta, ci siamo messi in viaggio».

Dove avete vissuto in Libia?
«A Kufra, un villaggio della Cirenaica, la regione sud orientale della Libia. Un'oasi nel mezzo del deserto del Sahara a mille kilometri dalle città costiere. Ma almeno c'era lavoro ed una relativa tranquillità. Ci saremmo stabiliti lì definitivamente se nel 2011 non fosse scoppiata la rivoluzione».

Cosa avete fatto?
«Eravamo intrappolati in quel villaggio circondato dal deserto, l'alternativa era ritornare verso Sud, affrontando il deserto a piedi o con qualche passaggio ma era troppo pericoloso. Sapevamo che a Tripoli gli stranieri venivano rimpatriati nei loro paesi d'origine con voli giornalieri e allora ci siamo messi in viaggio verso la capitale libica. Abbiamo viaggiato sopra delle autocisterne che trasportavano carburante, le strade erano piene di bande armate pronte a razziare qualsiasi cosa ed anche noi siamo stati derubati di tutto, soldi, telefoni, ogni cosa. Arrivati a Tripoli, dopo quasi un mese di viaggio, non avevamo più niente. La situazione era degenerata moltissimo, non c'erano più aerei, le ambasciate erano tutte chiuse, ovunque regnava il caos».

È stato in quel momento che avete deciso di attraversare il mare?
«Non c'era più una via d'uscita, dopo tutto quello che avevamo passato da quando avevamo lasciato il Congo, l'unica speranza era soltanto il mare. Peter ha lavorato come imbianchino per due settimane ed è riuscito a racimolare circa 500 euro. In questo modo insieme ad un'altra coppia abbiamo contattato le persone che organizzavano le traversate. All'inizio non volevano prenderci perché chiedevano più soldi ma poi hanno accettato. Ci siamo trasferiti su una spiaggia dove abbiamo aspettato due settimane, vivendo all'addiaccio, il momento favorevole per salpare. Alla fine siamo saliti su questa barca che era così piccola e noi eravamo tantissimi. Ci hanno stipati come se fossimo delle cose. Siamo rimasti così senza poterci muovere, in balia delle onde, senza bere né mangiare per due giorni. Tanti stavano male, vomitavano gli uni addosso agli altri, io mi ricordo che ad un certo punto un gruppo di ragazzi nigeriani diceva che portavo la maledizione sulla barca e volevano buttarmi a mare. Il malessere, la paura, il digiuno forzato mi hanno fatto svenire. Mi sono risvegliata in un letto d'ospedale a Lampedusa con il medico che mi confortava dicendomi che andava tutto bene, che ero in Italia e che ero incinta di tre mesi. Mi sono messa a piangere! Ho vissuto un'esperienza che non rifarei neanche in sogno perché, al di là dei rischi, è una cosa che quando la vivi una volta non vuoi riviverla mai più anche se il desiderio di avere un futuro migliore è davvero grande. A Lampedusa siamo stati accolti, ci hanno dato un paio di scarpe, vestiti puliti, il sapone per lavarci, ci è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e il giorno dopo siamo partiti con destinazione Monza. Da quattro anni ormai viviamo qui, le mia bambine sono nate in Italia, Peter ha un lavoro... Le difficoltà da affrontare certamente non mancano ma se penso a tutto quello che abbiamo vissuto prima direi che siamo stati fortunati. Sapere che ci sarà un domani è importante».

Pubblicato su La Sicilia venerdì 8 Maggio 2015