[foto Social Channel] |
Evelyne e Peter hanno attraversato il
mare quattro anni fa. Anche loro stipati peggio delle bestie, corpi
appiccicati a corpi, impossibilitati perfino a compiere il più
piccolo movimento, sopra uno di quei relitti che gli “smuggler”,
i biechi trafficanti di esseri umani, si ostinano ad usare come
traghetti per alimentare i loro milionari affari di morte. Ma loro ce
l'hanno fatta. Evelyne e Peter sono partiti dalla Repubblica
Democratica del Congo, hanno percorso quasi 7000 kilometri, risalendo
praticamente mezzo continente africano, prima di imbarcarsi dalle
coste libiche alla volta dell'Italia. Fa un certo effetto incontrare
oggi Evelyne in una tiepida ed assolata mattina di primavera in un
caffè nel centro di Monza a pochi passi dal Duomo. Suo marito Peter
è al lavoro e lei può dedicarmi solo poco tempo perché poi deve
andare a prendere le sue due bambine all'asilo. Una ordinarietà
della vita impensabile, e probabilmente insperata, fino a poco tempo
fa.
Evelyne cosa vi ha spinto a lasciare
il Congo?
«Ci
sono stati diversi motivi per i quali nel 2010 abbiamo deciso di
partire, alcuni sono personali ma altri sono legati al fatto che lì
ormai non si stava più bene e la situazione politica era molto
instabile e tendeva progressivamente a degenerare. Così ci siamo
imbarcati su un mercantile e abbiamo risalito il fiume Congo con
l'idea, almeno all'inizio, di raggiungere un'altra provincia del
nostro Paese che fosse più tranquilla, nella quale si potesse vivere
e lavorare. Non è andata però come speravamo. Io sono nata e
cresciuta a Kinshasa, la capitale del Congo, e questa cosa ha creato
una sorta di diffidenza tra noi e la gente del posto. Inoltre la zona
non era così sicura come si pensava per cui abbiamo deciso di
spostarci in un altro villaggio ma le condizioni di vita erano
lontanissime da quelle a cui eravamo abituati».
E quindi siete ripartiti?
«Eravamo
vicini al confine con
la Repubblica Centrafricana e abbiamo deciso di spostarci lì. Erano
gli ultimi mesi del 2010, si stavano preparando le elezioni politiche
e presidenziali del 2011 e il popolo temeva che ci sarebbe stata
ancora una volta una guerra dopo le elezioni, la situazione era
drammatica. Siamo ripartiti. Viaggiando un po' a piedi e un po'
chiedendo passaggi ai camion diretti a Nord siamo arrivati in Ciad.
Non ci eravamo mai confrontati con una cultura islamica così forte e
radicata, in Congo il 97% della popolazione è cristiana, e l'impatto
è stato traumatico, almeno per me. Ero obbligata ad indossare il
velo e ad osservare una serie di norme a cui non ero per nulla
abituata. Per mio marito era abbastanza semplice la vita ma per me
era molto, molto difficile. Avevamo sentito dire che in Libia c'erano
buone opportunità di lavoro per cui, ancora una volta, ci siamo
messi in viaggio».
Dove avete vissuto in Libia?
«A
Kufra, un villaggio della Cirenaica, la regione sud orientale della
Libia. Un'oasi nel mezzo del deserto del Sahara a mille kilometri
dalle città costiere. Ma almeno c'era lavoro ed una relativa
tranquillità. Ci saremmo stabiliti lì definitivamente se nel 2011
non fosse scoppiata la rivoluzione».
Cosa avete fatto?
«Eravamo
intrappolati in quel villaggio circondato dal deserto, l'alternativa
era ritornare verso Sud, affrontando il deserto a piedi o con qualche
passaggio ma era troppo pericoloso. Sapevamo che a Tripoli gli
stranieri venivano rimpatriati nei loro paesi d'origine con voli
giornalieri e allora ci siamo messi in viaggio verso la capitale
libica. Abbiamo
viaggiato sopra delle autocisterne che trasportavano carburante, le
strade erano piene di bande armate pronte a razziare qualsiasi cosa
ed anche noi siamo stati derubati di tutto, soldi, telefoni, ogni
cosa. Arrivati a Tripoli, dopo quasi un mese di viaggio, non avevamo
più niente. La situazione era degenerata moltissimo, non c'erano più
aerei, le ambasciate erano tutte chiuse, ovunque regnava il caos».
È stato in quel momento che avete
deciso di attraversare il mare?
«Non
c'era più una via d'uscita, dopo tutto quello che avevamo passato da
quando avevamo lasciato il Congo, l'unica speranza era soltanto il
mare. Peter ha lavorato come imbianchino per due settimane ed è
riuscito a racimolare circa 500 euro. In questo modo insieme ad
un'altra coppia abbiamo contattato le persone che organizzavano le
traversate. All'inizio non volevano prenderci perché chiedevano più
soldi ma poi hanno accettato. Ci siamo trasferiti su una spiaggia
dove abbiamo aspettato due settimane, vivendo all'addiaccio, il
momento favorevole per salpare. Alla fine siamo saliti su questa
barca che era così piccola e noi eravamo tantissimi. Ci hanno
stipati come se fossimo delle cose. Siamo rimasti così senza poterci
muovere, in balia delle onde, senza bere né mangiare per due giorni.
Tanti stavano male, vomitavano gli uni addosso agli altri, io mi
ricordo che ad un certo punto un gruppo di ragazzi nigeriani diceva
che portavo la maledizione sulla barca e volevano buttarmi a mare. Il
malessere, la paura, il digiuno forzato mi hanno fatto svenire. Mi
sono risvegliata in un letto d'ospedale a Lampedusa con il medico che
mi confortava dicendomi che andava tutto bene, che ero in Italia e
che ero incinta di tre mesi. Mi sono messa a piangere! Ho vissuto
un'esperienza che non rifarei neanche in sogno perché, al di là dei
rischi, è una cosa che quando la vivi una volta non vuoi riviverla
mai più anche se il desiderio di avere un futuro migliore è davvero
grande. A Lampedusa siamo stati accolti, ci hanno dato un paio di
scarpe, vestiti puliti, il sapone per lavarci, ci è stata
riconosciuta la protezione sussidiaria e il giorno dopo siamo partiti
con destinazione Monza. Da quattro anni ormai viviamo qui, le mia
bambine sono nate in Italia, Peter ha un lavoro... Le difficoltà da
affrontare certamente non mancano ma se penso a tutto quello che
abbiamo vissuto prima direi che siamo stati fortunati. Sapere che ci
sarà un domani è importante».
Pubblicato su La Sicilia venerdì 8 Maggio 2015